di Redazione

Le poli­ti­che di auste­rità hanno con­se­gnato all’Europa sei anni di sta­gna­zione e un quarto di anti-europeisti arrab­biati nel nuovo par­la­mento di Bru­xel­les. Ora la nuova Com­mis­sione euro­pea del demo­cri­stiano lus­sem­bur­ghese Jean-Claude Junc­ker si pre­senta con una for­ma­zione schie­rata a destra, con — nono­stante Pierre Mosco­vici all’economia — un pre­su­mi­bile con­ti­nui­smo rispetto alle attuali poli­ti­che macroeconomiche.

L’agitazione di Bru­xel­les sulla nuova con­fi­gu­ra­zione di potere coin­cide con una con­fu­sione ana­loga in altri palazzi dell’economia. Chri­stine Lagarde dal Fondo Mone­ta­rio arriva a negare che ci siano oggi poli­ti­che di auste­rità in Europa. L’Ocse è con­fusa tra docu­men­tare che la pre­ca­rietà fa male al lavoro e rac­co­man­dare ulte­riori libe­ra­liz­za­zioni. A Fran­co­forte Mario Dra­ghi, gover­na­tore della Banca cen­trale euro­pea, annun­cia un’utile espan­sione mone­ta­ria sul modello anglo­sas­sone, ma pre­para una pes­sima offen­siva con­tro le pro­te­zioni del lavoro.

Dra­ghi ha legato la coe­sione dell’area euro alla pos­si­bi­lità di ogni paese di rea­liz­zare un ele­vato livello di occu­pa­zione; l’occupazione si riaf­fac­cia come obiet­tivo della poli­tica eco­no­mica euro­pea, ma viene posta in maniera distorta, da rag­giun­gere attra­verso la strada obbli­gata delle «riforme strut­tu­rali». Che vogliono dire ridu­zione delle tutele per i lavo­ra­tori, dell’imposizione fiscale sul lavoro (per imprese e dipen­denti), mag­giore fles­si­bi­lità sul mer­cato del lavoro, fine del ruolo di rap­pre­sen­tanza del sin­da­cato, salari bassi e potere delle imprese su tutte le con­di­zioni di lavoro.

Agli occhi dei con­fusi lea­der euro­pei, sarebbe que­sta la for­mula magica che per­met­te­rebbe all’Europa di uscire dall’impasse costi­tuta da una poli­tica mone­ta­ria gene­rosa e una poli­tica fiscale immo­bile nell’austerità. Per il sistema di offerta, il «tan­dem restrit­tivo» (parole di Dra­ghi) di poli­tica mone­ta­ria e poli­tica fiscale non garan­ti­sce né la ridu­zione del costo del capi­tale, né la ridu­zione del pre­mio sul rischio e l’allentamento del cre­dit gap nei paesi in mag­giori dif­fi­coltà. Gli inve­sti­menti non potranno quindi ripren­dere e tirare fuori l’Europa dalla crisi e la poli­tica della domanda resta il grande assente della poli­tica euro­pea. Solo con una poli­tica fiscale espan­siva (un’inevitabile spesa pub­blica in defi­cit), la poli­tica di finan­zia­mento mone­ta­rio del defi­cit potrebbe avere con­se­guenze effet­ti­va­mente espan­sive e gio­care, come pro­spetta Dra­ghi, un ruolo cen­trale nella poli­tica eco­no­mica euro­pea «per un esteso periodo di tempo».

Non è chiaro se que­sta pro­spet­tiva di aggiu­sta­mento avan­zata da Dra­ghi incon­trerà i favori della nuova Com­mis­sione europea. Que­sta dovrà fare i conti con gli effetti della crisi occu­pa­zio­nale e di con­senso sociale che le poli­ti­che euro­pee di rispo­sta alla crisi hanno ormai radi­ca­liz­zato. Lo scon­tro pre­ve­di­bile sarà tra la com­bi­na­zione «tede­sca» delle poli­ti­che macroe­co­no­mi­che (fiscale restrit­tiva e mone­ta­ria acco­mo­dante) e la com­bi­na­zione «anglo­sas­sone» di una poli­tica macroe­co­no­mica più fles­si­bil­mente espan­siva sul ter­reno fiscale e una poli­tica mone­ta­ria diver­sa­mente accomodante.

Un con­flitto tra due pro­spet­tive di lungo periodo sulla gestione di mer­cato della società. Ma entrambe — Dra­ghi com­preso — con­di­vi­dono la pro­spet­tiva di uno sman­tel­la­mento delle isti­tu­zioni del lavoro e dell’intervento pub­blico all’insegna delle «riforme strutturali».

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