Niccolò Machiavelli ha scritto “ la guerra puoi iniziarla quando vuoi, ma non puoi finirla quando ti pare” , così è stata la “guerra di Terni” iniziata quasi per “gioco” da alcuni componenti della maggioranza di centrosinistra e pian piano arrivata alle estreme conseguenze con le dimissioni del sindaco. Qualcuno l’ha definita una “guerra strana” dagli obiettivi non dichiarati e per questo quasi incomprensibile nel contesto di un partito quello democratico che della maggioranza che governa il comune di Terni rappresenta la più importante compagine.

Magari agli sguardi della gente comune, cioè degli elettori che attraverso il loro voto hanno determinato la riconferma del centrosinistra a Terni, la guerra che una componente della maggioranza uscita dalle urne, ha condotto con ostinazione contro il dimissionario Leo Di Girolamo può apparire in effetti come uno dei tanti “misteri” della politica, che puntualmente stanno emergendo sempre più numerosi dalle nostre parti, misteri che provocano sempre più un certo senso di nausea e di disorientamento, in un elettorato che convogliando da più di quaranta anni i propri consensi verso un partito, si aspettava da quest’ultimo certamente qualcosa di più che una guerra intestina che paralizza tra l’altro l’attività comunale in una città che sta vivendo una delle peggiori crisi della sua storia industriale.

Almeno di questo si doveva tenere conto e pur sostenendo le eventuali ragioni del casus belli , dare un segnale di grande maturità, sospendendo momentaneamente le ostilità. Così non è stato, nonostante il trafelato arrivo del responsabile nazionale degli enti locali del PD calato in città per scongiurare che accadesse quello che invece è accaduto, sicuramente un tentativo tardivo che andava effettuato prima, magari per affiancarlo alle iniziative del segretario territoriale, che davanti all’evento non sta facendo certo una gran bella figura. Tra gli addetti ai lavori adesso si sta cercando di capire cosa effettivamente può esserci dietro alla determinata iniziativa di quei consiglieri comunali definiti “ribelli” , che hanno costretto il sindaco alle dimissioni per aver cocciutamente sostenuto la loro volontà di non accettare il bilancio così come il Primo Cittadino l’aveva proposto.

E’ la parte che riguarda il welfare che pare abbia scatenato le ire dei “ribelli” tutti appartenenti all’area ex Margherita, un contrasto di fondo nell’ottica della gestione delle politiche sociali, quindi non una cosa da poco, tanto da provocare una crisi proprio nel momento meno adatto. C’è un senso (politico) in tutto questo? Quale rendita può derivare da un simile comportamento? Quali possono essere i contraccolpi per l’immagine del PD locale e le ricadute sul governo regionale, visto che nella guerra sono coinvolti anche suoi autorevoli esponenti? Domande che attendono risposte credibili, che non possono essere certamente quelle della sola ricerca di “maggiore visibilità” (come si chiama anche quella che volgarmente viene detta “caccia alle poltrone”).

Ciò è necessario perchè la “guerra di Terni” può anche essere vista come un “laboratorio” del malessere che sta pervadendo il Partito Democratico al centro come alla periferia e anticipare ciò che potrebbe accadere non in un consiglio comunale ma all’interno delle strutture nazionali del partito, segnali in tal senso ci sono già e la “guerra di Terni” ne può rappresentare l’essenza. Preoccupa anche un altro fatto, cioè la mancanza, nella fase più acuta della crisi all’interno del PD locale, di alcune voci autorevoli che si erano alzate in tempi più o meno recenti da altrettanto autorevoli palazzi per invocare la politica a prendere strade virtuose nell’interesse della comunità locale, dove sono finite? La “guerra” non puoi finirla quando ti pare, ci ricorda Machiavelli, allora? Che abbia ragione Gustavo Zagrebelsky quando sostiene che bisogna prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere nelle mani di èlites? In questo caso la “guerra di Terni” non sarebbe che una dimostrazione di questo teorema nel contesto della banalizzazione della stessa democrazia che oggi sta vivendo il nostro Paese.


GIAN FILIPPO DELLA CROCE
 

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