di Vincenzo Vita

La poli­tica ita­liana si è fatta sem­pre più ceri­mo­niale (gli avve­ni­menti mon­tati secondo logi­che e ritmi da situa­zione «ecce­zio­nale»), per ripren­dere un tema caro ai socio­logi Katz e Dayan. I quali sot­to­li­neano quanto tutto ciò sia una moda­lità di sod­di­sfa­zione e – pure — di con­trollo della società. Quest’ultima tende a pre­fe­rire – non tutta, ovvia­mente — "una poli­tica emo­tiva al dia­logo e al dibat­tito" (1992): una poli­tica, cioè, deviata e distorta dai grandi eventi mediatici.

Dalla vicenda dell’omicidio del gio­vane Loris, al nau­fra­gio del tra­ghetto "Nor­man Atlan­tic", al tor­men­tone sull’assenteismo dei vigili di Roma, alla guer­ri­glia psi­co­lo­gica anti-Tsipras in vista delle ele­zioni in Gre­cia, il "main stream" dell’informazione corre sui con­so­li­dati binari della logica sopra evo­cata. Cui non sfugge il rullo com­pres­sore media­tico di Palazzo Chigi.

Al di là della pre­va­lenza quan­ti­ta­tiva, a costi­tuire una rot­tura qua­li­ta­tiva è la tra­sfor­ma­zione del flusso infor­ma­tivo in un mosaico nar­ra­tivo, di cui la cro­naca (meglio nera, natu­ral­mente) e la poli­tica – per­so­na­li­stica e roman­zata — sono le sequenze pri­vi­le­giate, sor­reg­gen­dosi a vicenda. A sca­pito delle "hard news", le noti­zie in senso stretto, quelle affron­tate dal gior­na­li­smo "cane da guar­dia" rubri­che (da Report in poi), salvo ecce­zioni. E su cui pio­vono cen­sure e querele.

Due modelli per due tipo­lo­gie di frui­zione: gene­ra­li­sta e anziana l’audience dei tele­gior­nali, di mag­giore scam­bio gene­ra­zio­nale i luo­ghi dell’approfondimento cri­tico. Mono­me­dia­tica l’una, mul­ti­piat­ta­forma l’altra. La "media­mor­fosi", ben descritta anni fa dallo stu­dioso Roger Fid­ler (1997). Anche di que­sto dovrebbe occu­parsi l’annunciato piano di rior­dino dei tele­gior­nali da parte della dire­zione gene­rale della Rai, piut­to­sto che badare al mero accor­pa­mento delle testate.

Insomma, è in corso una "con­tro­ri­vo­lu­zione" silen­ziosa e silen­ziata, parte inte­grante della ten­denza a depo­ten­ziare le rap­pre­sen­tanze del corpo sociale, non­ché a inde­bo­lire strut­tu­ral­mente (e non solo epi­so­di­ca­mente) l’autonomia e l’indipendenza dell’ex Quarto Potere. Un sistema poli­tico pre­po­tente, ma impo­tente rispetto alla vera imma­nenza della sta­gione tec­no­lo­gica – l’immensa cir­co­la­zione dere­go­lata dei dati e dei meta­dati — si appaga con il con­trollo della tra­di­zio­nale cit­ta­della mediale, lasciando il grosso ai vari Goo­gle, Yahoo, Ama­zon , e così via. O all’immarcescibile Murdoch.

"Tutto sba­gliato, tutto da rifare", diceva Bar­tali. Appunto. Per­ché non togliere, allora, ogni dub­bio sulla vora­cità del «patto del Naza­reno» abro­gando la legge Gasparri – la sbia­dita ban­diera dell’occupazione dell’etere da parte dei cava­lieri dell’ex Cava­liere — e intro­du­cendo il tema del con­flitto di inte­ressi (due sem­plici arti­coli: sulle cause di ine­leg­gi­bi­lità e sulle even­tuali incom­pa­ti­bi­lità, Ber­lu­sconi e non solo) nella annun­ciata legge elet­to­rale? Sarebbe il minimo indi­spen­sa­bile dopo la crisi di cre­di­bi­lità di un governo pesan­te­mente segnato dall’incidente del comma-vergogna inse­rito nel decreto fiscale, che fa pen­sare alla stan­gata rac­con­tata da "Regalo di Natale" di Pupi Avati.

E, sem­pre per stare nel cinema, il cosid­detto errore-sanatoria (pro Ber­lu­sconi e pro altri ric­chi) evoca gli sce­nari inquie­tanti descritti da Joseph Losey negli anni ses­santa in "Acci­dent", dove si spiega che un inci­dente non è poi come sem­bra e i "buoni" non sono così buoni. L’obbligo della verità vale sem­pre, a mag­gior ragione per chi maneg­gia il potere.

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