“Sono di origini materne siciliane e da bambina visitavo spesso la Sicilia. Avrò avuto circa otto anni quando mi sono trovata davanti al Teatro Massimo di Palermo ed ho letto - sul timpano che sovrasta l’ingresso - ‘L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene è il diletto dove non miri a preparare l'avvenire’ - Ho capito in quel momento cosa avrei voluto fare da grande: ‘usare’ l’arte per migliorare la vita (la mia, in primis)’. Esordisce così Alessandra Pizzi, talentuosa regista di ‘Uno Nessuno Centomila’, l’opera di Luigi Pirandello resa monologo con il suo adattamento e interpretato da Enrico Lo Verso fino al 30 aprile alla Sala Umberto di Roma.

Cosa rappresenta il teatro per lei?

“È lo strumento con il quale innescare riflessioni, osservazioni, stimolare il senso critico di ciascuno. Lungi da me la presunzione di indicare soluzioni o di rivelare chissà quali verità, quanto pretendere da chi il teatro lo fa di realizzare prodotti artistici capaci di stimolare la crescita”.

Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di Luigi Pirandello. È la ragione che ha motivato lo spettacolo?

L’idea dello spettacolo attinge ad un lavoro didattico di molti anni fa, quando - da studentessa universitaria per l’esame di letteratura italiana - mi fu richiesta una monografia di un autore dell’Italia postunitaria. Avevo letto, per mio diletto, gran parte della produzione pirandelliana della quale mi aveva colpito la corrispondenza tra certe ‘follie’ dei personaggi e l’individuo contemporaneo. E scrissi una tesina in 4 giorni e 4 notti senza mai uscire dalla mia stanza che mi valse la lode a quell’esame. Ma quel lavoro sortì un effetto su di me, aveva cambiato la mia percezione delle cose perchè era stato esso stesso uno stimolo”.

Ha continuato a leggere Pirandello?

“Sì, critica compresa. Dopo quindici anni da quell’esame ‘Uno Nessuno Centomila’, il romanzo che lo stesso Pirandello definisce ‘chiave’ rispetto all’intera produzione , mi ha mai più abbandonata. È ritornato nella mia vita chiedendomi nuove forme espressive. Ed ha preso quella di un monologo teatrale”.

Recitato egregiamente da Enrico Lo Verso, tornato al teatro dopo dieci anni di assenza perchè “il testo lo ha convinto” ha dichiarato l’attore, “Uno Nessuno Centomila’ nell’adattamento di Alessandra Pizzi ha perso virgole e congiunzione. Perché?

“Per una questione di immediatezza del messaggio e fluidità del testo. Il titolo Uno Nessuno Centomila’, scritto così, sintetizza l'intenzione di mettere al centro della ‘scena’ un individuo solo. Virgole e congiunzione danno il senso di essere in tanti: se stessi, poi un nessuno e, comunque, centomila altri. Il mio Vitangelo Moscarda è ‘Uno’ con se stesso, e quindi nessuno, oppure centomila. Perchè ci sono modi diversi di vivere il rapporto con la propria personalità”.

Nell’opera c’è la summa della riflessione esistenziale dell’autore, perché ha scelto la formula ‘monologo’?

“Per esaltare la vita del protagonista, Vitangelo Moscarda (per gli amici Gengè), un uomo prigioniero di un modus vivendi imposto dalla società che lo osserva. Spostando l’asse della conversazione dai piani plurimi al singolo ho voluto sottolineare la figura di un uomo che diventa protagonista della sua vita, parlando di una vita che merita di essere compresa e vissuta tra mille differenze, una per tutte: la differenza tra vivere e sopravvivere. Perciò il Moscarda è divenuto IL protagonista e tutti gli altri comprimari di una vicenda e non più co-protagonisti”.

Dopo otto mesi di recite su quasi tutto il territorio nazionale, circa 30mila spettatori, oltre 30 repliche ‘tutto esaurito’, sente di aver creato un prodotto che il mercato teatrale apprezza?

“Lo spettacolo è uno dei pochi esempi contemporanei di altissimo gradimento e partecipazione di pubblico. Abbiamo spettatori di ogni età tra i quali moltissimi ragazzi e, tra questi, molti altri lo hanno visto anche tre volte. Registriamo la presenza del pubblico che aspetta fuori dal teatro, anche nelle repliche di sold out, sperando che possa liberarsi un posto. Tutto ciò credo sia merito di un combinato disposto di fattori: l’attentissima e altissima considerazione del pubblico che io metto sempre al primo posto. Lo spettacolo è rivolto al pubblico e al pubblico arriva con onestà di intenti. Portiamo in scena questo spettacolo più per dovere etico che per senso dell'arte. Sentivo il bisogno di coinvolgere le persone in una riflessione che non è del singolo, ma corale. E il pubblico ha raccolto l'invito. Il teatro è come una relazione d’amore: bisogna sempre andarci con il cuore”.

E del pubblico generalista cosa pensa?

“Non riesco a fare nessuna distinzione tra ‘modelli’ di pubblico. Ho sempre avuto un’altissima considerazione del pubblico e la partecipazione allo spettacolo conferma le mie convinzioni. In teatro, come in televisione, l’impegno non è richiesto a chi fruisce, ma a chi propone. Non è il pubblico ad essere ‘generalista’, ma l’offerta culturale. Il nostro, quello di Uno Nessuno Centomila, è un pubblico eterogeneo, è quello dei grandi eventi, ma anche quello dei giovani, spesso giovanissimi e comunque, indistintamente, sembrano gradire lo spettacolo. Molti operatori culturali sono invece radicati nell’idea che uno spettacolo, per essere apprezzato, debba necessariamente far ridere scadendo - magari - nel banale se non addirittura nella volgarità. Ignorando, così, che la gente oggi più che mai ha voglia di ‘sapere’. Consta a noi scegliere cosa ‘portare a loro’ attraverso il nostro lavoro. Il nostro pubblico è preso dalla vicenda, si fa domande. ‘Uno Nessuno Centomila’ rompe gli schemi toccando uno dopo l’altro i conflitti di un’esistenza: il rapporto del protagonista (è il rapporto di ciascuno di noi) con i genitori, i dubbi sulla sua provenienza, il rapporto di genere, la ricerca dell’identità, l’affermazione di sé. Ed il pubblico si nutre di testo, in silenzio elabora, applaude e spesso dopo lo spettacolo ci chiede conferme e, ogni sera, applaude chiedendoci di farlo ancora’.

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