di Elio Clero Bertoldi
PERUGIA - Rayan come Alfredino. Quaranta anni e mezzo dopo.
Un bambino che muore provoca sempre un dolore immenso. Uno strazio. Non da oggi, ma fin dall’origine della civiltà. Che concluda la sua breve esistenza in fondo ad un pozzo, solo, immerso nel buio, circondato dall’umidità, assediato dal freddo, acuisce ancor più l’angoscia dei cuori e delle menti. 
Chi ha vissuto l’esperienza lacerante di Vermicino (Frascati) conclusa con la morte di Alfredo Rampi, Alfredino per tutti, 6 anni non compiuti, nel giugno 1981, l’ha provata  di nuovo, bruciante ed intensa, con l’incidente di Ighran (Marocco), dove la caduta in un budello della terra, largo appena trenta centimetri (e che poi si restringe a 25), ha spezzato l’esistenza, dopo cento ore, di Rayan Awram, 5 anni. 
Ambienti diversi: le ridenti colline dei castelli romani sui colli Albani per Alfredino precipitato in un pozzo artesiano fino alla profondità di 62 metri; la terra rossastra dei contrafforti delle catene del Rif nell’Alto Atlante per Rayan, rotolato giú fino a 32 metri nel sottosuolo.
Popoli diversi: gli italiani ad un passo a Roma, in un paese ancora alle prese con gli “anni di piombo” del terrorismo; gli islamici di un piccolo centro rurale dediti alla coltivazione ed alla pastorizia. 
Identico il dolore, il compianto, il cordoglio. Ed anche la solidarietà umana.
Ironia del destino sul vecchio pozzo - trasformatosi da strumento di vita a mezzo di morte - stava lavorando, per tentare di ripristinarlo e renderlo utile per l’irrigazione, il padre di Rayan, Khaled. L’allarme della scomparsa del piccolo é scattato subito e la comunità si é prontamente mobilitata. Con l’arrivo massiccio da Rabat e da Fez, soprattutto, di uomini e mezzi e con la preghiera. Sul posto si sono portati anche un noto scavatore di pozzi, Ba Ali Sahraoui - un mito delle lande desertiche -  e la squadra squadra (due aiutanti) -, abituati a raspare via la terra con le mani. “Gli ho parlato via radio - aveva detto con la voce carica di speranza, il padre - respira a fatica, ma é vivo.” Quando i soccorritori (che hanno operato con sei escavatori e potenti perforatori) dopo cinque giorni - da martedì a sabato -, sono giunti ad estrarre Rayan - al quale erano riusciti a fornire un po’ di ossigeno, acqua, sostanze nutrienti attraverso un tubino a cui era stata collegata pure una telecamera - il bambino appariva, però, piegato su un fianco e, purtroppo, ormai agonizzante. Lo hanno caricato su una ambulanza, coperto da un lenzuolo giallo, che dopo poche decine di metri si é fermata. Come il cuoricino di Ryan. “É morto - questo il succo del comunicato ufficiale - per le ferite riportate nella caduta.” Come la Rai a Vermicino, Al Jazeera e Sky News Arabia hanno tenuto dirette seguitissime in ogni paese arabo. E non solo.
Sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso che, a questo punto, servono soltanto per gli aspetti burocratici.
La ferale notizia ai genitori (Khaled e Soumaya) in attesa e che stavano cominciando a sperare in un lieto fine, l’ha comunicata lo stesso re del Marocco, Mohammad VI, al telefono. 
Nel 1981, tre giorni era durata la speranza di salvare Alfredino: tra il 10 ed il 13 giugno, con tanto di diretta televisiva, con papà Fernando e mamma Franca, disperati e trepidanti, a seconda dei momenti. Anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini si precipitò a Vermicino e vi rimase per ore e ore. Si sperimentò ogni possibilità, anche la più ingenua. Si succedettero, nell’impresa di scendere lungo lo stretto cunicolo, coraggiosi dilettanti ed esperti speleologi che si calarono, con terribili sforzi ed a testa in giù, fin quasi a toccare lo sfortunato bambino, sempre più sfiduciato, con la vocina flebile e lamentosa. Si provò a raggiungere la vittima scavando un cunicolo parallelo a quello in cui era rotolato Alfredino (tentativo espletato anche nel caso di Rayan e concluso positivamente col recupero), che tuttavia, nel frattempo, era scivolato ancora più in basso. Niente da fare. Fu possibile riportare il cadavere in superficie solo ventotto giorni più tardi, in pieno luglio.
Papa Francesco, all’Angelus, domenica scorsa, ha dedicato un toccante pensiero al piccolo Rayan. Ha rimarcato come l’intera popolazione si sia stretta intorno al piccino ed alla sua famiglia. Ha esaltato il cuore con cui il Marocco e la sua gente ce l’abbiano “messa tutta” per salvarlo. Ha definito i soccorritori “i santi della porta accanto”. Sebbene il miracolo non si sia concretizzato. Proprio come quaranta anni e mezzo fa.
Stride, per l’uomo della strada, il particolare che Stati e multinazionali continuino a lanciare razzi e robot nello spazio, mentre la tecnologia non abbia fatto neppure un passo in avanti per affrontare queste situazioni-limite, pure ricorrenti specie in Asia ed in Africa. Di tanto in tanto si legge di invenzioni, di prototipi meccanici, piccoli e manovrati a distanza, in grado di raggiugere la vittima per portare cibo, medicine, luce e anche calore (nelle viscere della terra il freddo può trasformarsi in causa di decesso) e voci umane, magari della mamma e del papà, ma il tutto resta a livello di pura teoria. 
Che, almeno, stavolta la tragica fine di un altro bambino rappresenti uno stimolo a passare dall’ideazione alla concretizzazione di strumentazioni moderne, adeguate, utili a salvare le vite di bambini sfortunati come Alfredino e Rayan.

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