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di Alfonso Gianni Le vacche magre sono tornate a pascolare sugli aridi prati di Eurolandia. Per la verità molto grasse non erano neppure prima. Soprattutto se guardiamo le cose da chi sta più in basso nella gerarchia sociale. Ma ora in Europa si parla proprio di recessione. Lo hanno fatto tutti i giornali nel giorno di Ferragosto, data solitamente spensierata. Questa volta lo è stata solo per i ministri di casa nostra che se ne stanno comodamente in vacanza, mentre nel mondo infuriano nuove guerre e probabilmente è cominciata una recessione di dimensioni mondiali. Ma si sa che in Italia è il generale Agosto che comanda, alla faccia dei soldati che pattugliano le città per proteggerle dai pericolosi turisti. E' successo che Eurostat ha certificato che il Prodotto interno lordo è diminuito dello 0,2% nei quindici paesi che aderiscono alla moneta unica, cioè l'euro, nel trimestre che va da aprile a giugno rispetto al primo trimestre dell'anno. Per quanto rozzo, il Pil è un indicatore importante, anzi l'unico di cui si dispone a tutt'oggi, malgrado che Giorgio Ruffolo in un indimenticabile articolo di molti anni fa lo avesse chiamato Pirl nel paese di Pirlandia, cioè il nostro, per indicare come esso misurasse più i vizi che le virtù di un sistema economico. Ma la sua diminuzione è certamente segnale di decrescita, quella infelice però, non quella felice, se mai esiste, auspicata da Serge Latouche ed epigoni. Come si sono affrettati a dire gli inguaribili ottimisti, fra cui possiamo includere anche gli estensori del Bollettino mensile della Banca centrale europea, diffuso pochi giorni fa, ancora non si può parlare tecnicamente di recessione in Europa. Per farlo, a prova di dottrina, bisognerebbe inanellare almeno due trimestri consecutivi di diminuzione del Pil. La risposta definitiva l'avremo quindi in autunno, ma tutto fa credere che l'ottimismo sia solo di facciata e che invece la grande paura sia già cominciata. Intanto si tratta del peggiore risultato realizzato dai paesi europei dopo la creazione della moneta unica nel 1999. E' inutile o ingannevolmente consolatorio dire, come ha fatto il portavoce di Almunia, ministro europeo degli Affari economici e monetari, che la diminuzione fosse inevitabile di fronte ad un aumento del trimestre precedente sulla fine del 2007 dello 0,7%. Non solo perché quest'ultimo non rappresentava certo un incremento travolgente, ma soprattutto perché l'attuale diminuzione del Pil europeo si inserisce in un quadro mondiale di tipo fortemente recessivo. La modestissima crescita negli States, lo 0,5% nel secondo trimestre, appare per di più assai fragile ed è dovuta esclusivamente all'iniezione di denaro pubblico. Meno male, per gli Usa, che questa c'è stata, a differenza della ostinazione europea sulla riduzione dei deficit di bilancio. Ma in ogni caso l'economia americana è minata da un lato da una sensibile crescita dell'inflazione e dall'altro, ed è ciò che più conta, da una contrazione delle retribuzioni che riduce la capacità di consumo sul mercato interno. Quello che gli Usa sono riusciti a fare, e bene, è stato quello di scaricare prevalentemente sull'Europa le conseguenze della crisi finanziaria innescata esattamente un anno fa dall'insolvenza dei mutui sub-prime. L'autorevole settimanale britannico The Economist sostiene appunto che stata Eurolandia la vittima principale della crisi finanziaria. Ma purtroppo c'è ben altro a turbare il quadro dell'economia mondiale. Improvvisamente la crescita dei prezzi delle materie prime si è invertita ed ha lasciato il posto ad un vero e proprio crollo. Qualche dato chiarisce di che si tratta: il barile del petrolio è sceso da 147 a 113 dollari; il frumento da 500 dollari a tonnellata a 341; il riso da quasi mille a 337; il granoturco da 280 a 140; il rame da 8.940 dollari a 7.320. Non si tratta di buone notizie. O meglio, i fatti economici hanno sempre almeno un doppio aspetto. E qui prevale quello peggiore. Quello che indica che siamo all'interno di una recessione vera e propria su scala mondiale e non semplicemente ad una congiuntura monetaria. La bolla speculativa creatasi dallo spostamento di investimenti finanziari da titoli travolti dalla crisi dei sub-prime a quelli legati al petrolio e alle materie prime è scoppiata. Tutto ciò, tra l'altro, è avvenuto senza che le fatidiche misure di lotta alla speculazione preannunciate da Giulio Tremonti avessero tempo di prendere corpo. Vi è dunque da chiedersi quale sarà il prossimo cavallo di battaglia del nostro ministro dell'economia, ma giuro che non è questa la nostra principale preoccupazione. In sostanza l'economia nel mondo occidentale non tira più o non come vorrebbero gli agiografi della globalizzazione. In Europa pesa la scarsa produttività del sistema economico nel suo complesso. Negli Usa la maggiore produttività, rispetto al Vecchio continente, si sviluppa soprattutto nei settori del commercio all'ingrosso e al dettaglio - si pensi al fenomeno Wall-Mart, una delle maggiori compagnie mondiali -, il che mette in luce una situazione con il fiato corto. Nei paesi emergenti, Cina in testa, i governi sono costretti a contenere la crescita per ragioni ambientali e sociali, che in questo articolo non abbiamo modo di approfondire. Non c'è da stupirsi. I migliori economisti lo avevano ampiamente previsto. Ad esempio, Andrew Glyn, scomparso alla vigilia dello scorso Natale al termine di una breve ma implacabile malattia, aveva pronosticato nel suo ultimo libro un periodo di crescita assai contenuta, non superiore allo 0,5% annuo, per i paesi europei. Ma oggi rischia di essere una previsione sbagliata per eccesso. Infatti la decrescita infelice in Europa è seria. Con la sola, e non casuale eccezione della Spagna, tutti i principali paesi vanno indietro. L'Italia è a meno 0,3%, come la Francia, mentre la Germania, che era più avanti, arretra di più, lo 0,5%. Le politiche neoliberiste, quelle moderate come quelle aggressive, sono al palo, anzi in evidente e profonda crisi. Gli escamotage alla Tremonti servono a modellare il successo del personaggio ma non a risolvere la situazione. Se si resta ancorati all'obbiettivo dell'azzeramento del deficit di bilancio non c'è possibilità di una ripresa nel nostro paese. La questione della ridiscussione dei vincoli finanziari e economici dei trattati di Maastricht e di Amsterdam è il grande tema che la recessione impone per le prossime elezioni europee. Zapatero poteva risparmiarsi diverse cose, come l'introduzione della Bolckenstein nel suo paese, ma almeno ha immesso nel sistema economico iberico qualcosa come 40 milioni di euro per i prossimi due anni. Ancora una volta si dimostra che senza un intervento pubblico diretto, capace di qualificare l'apparato produttivo, di rispondere a nuovi bisogni, di creare occupazione è difficile immaginare di uscire dalla recessione ormai alle porte. La liquidazione del neoliberismo è dunque una necessità economica e sociale e allo stesso tempo un obiettivo possibile. Joseph Stiglitz scriveva pochi giorni fa che solo la sinistra può garantire la crescita. Aggiungerei che dipende dalla qualità della sinistra e dal tipo di crescita. Se si resta prigionieri prima di Padoa Schioppa e poi di Tremonti, non c'è spazio né per l'una né per l'altra. E infatti in Europa abbiamo contemporaneamente la recessione economica e la profonda crisi della sinistra politica. La situazione è paradossale, perché in una simile situazione una sinistra avrebbe molte cose da dire, senza per questo aspettare di potere rivoltare il mondo come un calzino. A cominciare dalla questione delle misure immediate per fronteggiare la crisi finanziaria. Come sappiamo l'aumento di un quarto di punto dei tassi di interesse a livello europeo ha conseguenze dirette e micidiali sulle condizioni di vita e sui redditi delle popolazioni, in particolare di quelle che hanno contratto mutui a tasso variabile. Per questo fare una battaglia su scala europea contro la logica della Bce di anteporre la paura dell'inflazione a tutto quanto, fino a prepararsi ad alzare nuovamente il costo del denaro, mi pare un compito urgente e concretissimo. Non capita spesso sentirsi dare ragione dalla controparte, per cui vale la pena di segnalarlo. L'altro ieri un autorevole articolista scriveva sul giornale della Confindustria, il Sole24Ore , che "hanno avuto ragione i pessimisti, quelli che scommettevano sulla maggiore flessibilità della politica fiscale e monetaria americana e hanno criticato soprattutto la Bce per la sua decisione di alzare i tassi al 4,25%". Già, noi eravamo tra quelli, come attestano gli articoli da un anno a questa parte. Ma finora è servito a poco. Tuttavia la ragione quasi sempre non ha dalla sua parte la forza, ma la può in qualche modo sostituire con la testardaggine. Anche perché, come ci ammonisce Nouriel Rubini, se sarà l'evidenza della recessione mondiale, il cui prezzo verrà in primo luogo pagato dalle classi lavoratrici, a costringere le banche centrali ad allentare la politica monetaria, sarà troppo tardi. Condividi