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Da quando le prime notizie di aperture più o meno prossime di megastrutture quali Ikea, Virgin o, di queste ultime ore, di un grande parco giochi in terra umbra sono cominciate a circolare, si è aperta la caccia al posto di lavoro, con una frenetica ricerca di siti web da consultare o indirizzi ai quali inviare i curricula; cosa più che comprensibile, vista la disastrosa situazione lavorativa del momento. E’ indubbio che un brutto lavoro sia meglio di nessun lavoro, tuttavia mi sorgono spontanee un paio di riflessioni, dovute anche alla mia pregressa esperienza nel campo della grande distribuzione. Il tipo di lavoro che si viene a svolgere in strutture quali Ikea, mega centri fitness o parchi sul tipo Gardaland o Disneyland , non sono certo faticosi come quello di un operaio alle acciaierie TK (sicuramente meno pericolosi) o di un muratore, per esempio, però portano comunque ad un qualità della vita non buona. Mi spiego meglio; il mio augurio a tutti coloro che proveranno ad essere assunti è quello di riuscire nel loro intento, ma scordatevi, amici miei, un contratto a tempo indeterminato, sabati e domeniche con famiglia e amici, stipendi al di sopra del minimo sindacale e, ovviamente, tutele sindacali appropriate. Non posso dire che sarà sicuramente così, ma tendenzialmente, le multinazionali adottano questo tipo di comportamento: dipendente significa che dipendi in tutto e per tutto dall’Azienda (A maiuscola), avrai una ‘filosofia’ aziendale da seguire, avrai una ‘mission’ da perseguire, dei ‘budget’ da rispettare, un ‘team’ nel quale integrarti fino a perdere la tua personalità. Esiste solo l’Azienda e il diktat di vendere, vendere, vendere, siano mobili o servizi, vendere ad ogni costo, anche se si dovesse stare aperti il 26 dicembre, il 1° gennaio e tutte le domeniche o fino a tarda notte. In questo tipo di aziende ( con la a minuscola) raramente ho visto prediligere figure professionalmente preparate a lavoratori più ‘economici’, come apprendisti o lavoratori in mobilità; dal punto di vista sindacale poi, provare solo ad accennare ad un assemblea o ad un tesseramento significa ostracismo immediato. Ancora mi ricordo le parole del responsabile del personale ( quelli fichi le chiamano risorse umane) di una tra le più grandi aziende della grande distribuzione italiane, con sede a Milano: “ Un lavoratore onesto, che fa la sua parte, che ha la coscienza a posto non ha bisogno del sindacato” – la mia risposta: “ Anche un’azienda che non ha nulla da nascondere non teme alcunché dal sindacato” mi costò un anno e mezzo di mobbing, ma allora non si usava ancora questo termine, finchè non salpai per altri lidi. Tempo fa appresi addirittura che la Mc Donalds americana dispone di un’unità antisindacale che interviene in qualsiasi punto vendita degli States nel quale si sia ventilata l’ipotesi di interpellare il sindacato; sono psicologi, sociologi, esperti del comportamento che intervengono e dissuadono i lavoratori dal fare una cosa così antiaziendale. Non sono riuscito ad avere conferma che in Italia sia lo stesso, e non lo voglio credere, ma un tale comportamento è indicativo del modus operandi di aziende di questa portata. Il cliente entrerà in un ambiente fatto di cordialità e sorrisi, ma spesso, dietro la porta del magazzino o dello spogliatoio il sorriso scompare. Di solito tutti i lavoratori di questo tipo di strutture sono ricattabili dal punto di vista lavorativo. E le ultime modifiche del governo alle leggi che regolano il mondo del lavoro non aiutano certamente i dipendenti in questo senso. C’è un’altra questione da non sottovalutare; stiamo parlando di multinazionali, cioè di aziende, appunto, senza una connotazione territoriale precisa, uguali allo standard stabilito sia che si trovino in Russia che in Australia. Vengono nei nostri territori non certo perchè gli siamo simpatici, ma perchè ci vedono come meri consumatori e non illudiamoci che portino ricchezza; a fronte di qualche stipendio, non ci saranno guadagni per ditte o fornitori locali. Tutti i loro fornitori sono nazionali se non internazionali e si appoggiano a piattaforme di rifornimento già esistenti. In altre parole l’Umbria non avrà poi tanto da guadagnarci, parlo dell’Umbria che produce, l’Umbria degli artigiani e delle persone che esprimono un alto livello di qualità nel proprio lavoro. La ricchezza della nostra terra è anche nelle tante piccole e piccolissime aziende che danno vita ad una miriade di prodotti, tutti con la propria personalità, con una storia dietro. Invece assistiamo alla diffusione, sempre più capillare, di prodotti standardizzati, anonimi. L’Umbria non ha bisogno di questo, come dice anche Vinicio Bottichiari, direttore di Sviluppumbria: “...Noi dobbiamo mirare ad altro, alla filiera corta, alle realizzazioni di sbocchi commerciali per i prodotti umbri. Questa dei prodotti locali, tra l’altro, sta diventando una tendenza vera e propria”. Insiste Bottichiari, pur affermando che non vede in questa operazione solo aspetti negativi: “Conosco come lavorano le multinazionali: prima si posizionano nei luoghi ad alta densità e buona capacità di consumo, poi rendono più capillare la loro presenza fino a piccoli bacini di utenza, come le nostre zone. Dimostrazione di tutto questo è che Ikea ha punti vendita a Roma, Firenze e Ancona. Noi siamo arrivati quarti”. Ben vengano quindi nuovi posti di lavoro, basta tener presente che, unitamente a quelli, arriverà anche la caccia al consumatore: e la preda siamo noi. Condividi