idi di marzo.jpg
di Stefano Vinti Il 15 marzo del 44 a.C. Cesare fu ucciso da ventitré pugnalate; iniziava l’Impero di Roma. Giulio Cesare aveva sconfitto la secolare protervia della oligarchia senatoriale. La straordinaria vicenda politica, intellettuale e militare di Cesare fu determinata da meriti personali rari nella storia, da una “fortuna” sfacciata in tante circostanze, da una congiunzione di fatti, processi politici e storici che lo portarono a ricevere un eccesso di onori e potere. L’oligarchia senatoriale odiava Cesare; lui l’aveva sconfitta al di là di ogni attesa e senza misura, poi le aveva risparmiato la vita, poi addirittura promossa politicamente portandola ai vertici dello Stato. “Gli uomini – scrive Machiavelli – offendono o per paura o per odio”. I nemici di Cesare soffrivano di tutte e due i sentimenti, contemporaneamente. L’apice del potere Cesare lo raggiunse quando il Senato lo proclamò dittatore a vita, dictator perpetuus. Era il 14 febbraio 709 dell’anno di Roma, il 44 a.C., ventinove giorni prima delle “idi di marzo”. Essere stati graziati della vita da Cesare, per i congiurati era un’ossessione, e il gesto di Marco Antonio di offrire a Cesare la corona di re divenne lo schermo dietro al quale giustificare la loro azione omicida. Il capo della congiura era Caio Cassio, travolto dal rancore di un’ambizione continuamente mortificata. Modesto condottiero militare, violento, crudele, irascibile di carattere e avidissimo, fu Bruto ad intercedere presso Cesare per ottenere clementia. Bruto fu convinto da Cassio ad entrare nella congiura, la sua copertura morale, giacché gli altri cesaricidi erano disposti a seguirlo a condizione che Bruto aderisse alla congiura. Ma Cassio aveva anche un altro motivo per odiare Cesare. Si diceva, infatti, che Servilia (già donna amata da Cesare) avesse messo nel letto del “dittatore perpetuo” la più giovane delle figlie, Terzia appunto. In seguito Terzia era divenuta la moglie di Caio Cassio. Non è da escludere che anche Bruto avesse dei motivi, per dire, molto personali. Infatti, Servilia era sua madre e soprattutto era viva la diceria che lui fosse un bastardo di Cesare. E non è da escludere nemmeno che il legame della madre con Cesare e poi la feroce avversione di Catone abbia spinto Bruto prima a schierarsi con Pompeo e poi ad entrare nella congiura. Infatti, la sua seconda moglie, Porzia, era figlia di Catone. Inoltre, Cassio agitava a Bruto il fantasma di una possibile legittimazione del rapporto tra Cesare e Cleopatra e insieme il riconoscimento di Tolomeo Cesare come suo figlio. “Poteva essere il preludio per fondare una dinastia giulio-tolemaica? E Roma avrebbe avuto, nel tempo, un re egiziano? I partecipanti alla congiura erano invasati dall’idea di uccidere il tiranno per restituire la Repubblica alle antiche libertà. Era un miraggio, un anacronismo. La Repubblica agonizzava già prima del Rubicone. L’aspirazione al regno di Cesare era per loro nient’altro che un espediente. La dittatura a vita dava a Cesare poteri militari, lo sapevano bene e l’avevano votata. Ma l’accusa serviva a nascondere i veri, inconfessabili motivi percepiti solo in parte dagli stessi propagatori della congiura. La Repubblica, con le sue libertà, le sue leggi, era l’oligarchia senatoriale che godeva di un secolare predominio, e come tale ritenuto intoccabile; erano i grandi agrari che avevano trasformato in proprietà le terre demaniali; erano i più spregiudicati finanzieri che sfuggivano a ogni controllo. Per tutti costoro il delitto era la giusta espiazione di Cesare, reo di aver distrutto – il secolare dominio della libertà -, s’intende della loro libertà di oligarchi…” (F. Sampoli). Ad accelerare i tempi dell’omicidio fu, indirettamente, lo stesso Cesare quando stabilì la data della sua partenza per la campagna contro il regno dei Parti: il diciannove marzo. Dopo aver debellato ogni nemico interno, Cesare guardava il mondo. L’impresa più grande mai tentata nella storia prevedeva tre anni di campagna, poi le legioni avrebbero lasciato le lande persiane romanizzate per salire oltre il Ponto, circumnavigare il mar Caspio, assalire alle spalle i Daci e i Germani, ricongiungersi ai domini gallici dopo aver sottomesso Oriente e Occidente. Cesare ormai si considerava più di un uomo. Voleva darsi un carisma nuovo, rivestirsi dell’aura della divinità. “Non bastava più discendere dai mitici avi troiani o da Venere, come amava dire, doveva osare di più” (M. Zuccari). Le idi di marzo La vigilia delle Idi, Cesare cenò a casa di Emilio Lepido. C’erano Marco Antonio, Decimo Giunio Bruto, Lucio Cornelio Balbo. La notte era piovosa, e la conversazione dei commensali scivolò su quale tipo di morte era da preferire. Cesare disse: “la morte rapida e improvvisa che non ti aspetti”. Il mattino seguente, sua moglie Calpurnia gli raccontò di aver sognato che lo assassinavano. Inoltre, altri presagi erano assai negativi. Cesare era turbato e incerto se andare all’ultima seduta del Senato. Calpurnia non smetteva di pregarlo di restare a casa e di non andare in Senato. Cesare si convinse e acconsentì a rimanere. Intanto era arrivato Decimo Giunio Bruto per accompagnarlo. Aveva già licenziato i portatori della lettiga quando lo colpì la battuta di Bruto ad Antonio: “Io sono venuto alla domus publica per onorare e accompagnare Cesare e, però, a quanto pare (…) dobbiamo aggiornarci per le sedute del Senato fino a quando Calpurnia abbia sogni fausti?”. Bruto era della congiura ed era si era recato lì apposta per scortarlo, “vittima designata”, al patibolo. L’ultima possibilità per ucciderlo prima della partenza per la guerra contro i Parti. L’ultima scena La seduta del Senato era fissata per l’ora quinta (le undici del mattino). La folla accompagnò il cammino di Cesare, sulla Via Sacra, verso il Teatro di Pompeo. Per strada un greco di nome Artemidoro gli porse una lettera che lo informava minuziosamente sulla congiura, ma egli non si curò di leggerla subito. Volle dunque sfidare il destino. Guardie urbane e senatori arginando l’entusiasmo del popolo romano gli permisero di entrare in Senato. Prima del suo ingresso intravide tra le colonne l’aurispice Spurinna e si ricordò che cosa gli aveva predetto “Cesare, attento alle Idi di marzo”, lo irrise: “Le Idi, Spurinna, sono arrivate”, ritrovando la sua spavalderia. L’altro, teso e scuro in volto: “Ma non sono ancora passate, Cesare”. Gli auspici della seduta erano negativi, il sacrificio dell’animale sentenziò che le viscere annunciavano morte. Il sacerdote implorò Cesare di non andare. Non lo ascoltò. Vide Marco Antonio trattenuto che conversava con Trebonio. Entrò nell’emiciclo, i senatori si alzarono, andò a sedersi sulla sedia curule. I congiurati, una ventina, lo attorniarono. Il senatore Tillio Cimbro ritornò ad imploragli il ritorno del fratello dall’esilio. Era insistente, gli baciava la mano e le vesti, Cesare lo respinse infastidito, Cimbro allora urlò: “A che tardate, amici?”. Cesare capì la congiura, si era rifiutato di crederci, aveva anche licenziato la sua guardia del corpo. Era solo. Li vide e vide il loro odio stampato sui loro volti. Servilio Casca lo colpì da dietro in modo maldestro con un pugnale sul collo. Cesare si voltò di scatto e gli afferrò il polso urlando: “Maledetto Casca, che fai?”. I vigliacchi gli furono tutti addosso colpendo all’impazzata, spietati. Cesare si difese, mentre gli altri senatori impietriti assistevano alla scena quasi fossero a teatro. Cesare giunse fino alla statua di Pompeo. “La polvere e il sole di Farsalo erano lontani. I congiurati gli erano intorno a semicerchio con lui al centro, addossato al piedistallo della statua. Sanguinava per tutto il corpo: Cassio l’aveva colpito al viso, Decimo Giunio Bruto alle spalle, altri al fianco, alla coscia, alle braccia, alla gola. Si erse nella persona, in attesa, quando gli venne incontro Marco Giunio Bruto con il pugnale spianato. Le parole “Anche tu, Bruto, figlio mio” le disse in greco. Poi, con ferma dignità, si coprì il capo con la toga. Per morire da Cesare. Lo colpirono con ventitré pugnalate”. (F. Sampoli). “Senza vita, essendo tutti fuggiti dalla Curia, rimase a terra alquanto tempo, fino a quando, deposto su una barella, fu portato a casa da tre servi. Di tante ferite nessuna fu riconosciuta mortale, secondo la perizia del medico Antistio, eccetto la seconda vibrata in pieno petto” (Luca Canali). I congiurati si erano illusi che il popolo avrebbe approvato con entusiasmo l’uccisione del dittatore e che il potere passasse automaticamente nelle mani del Senato, ma il popolo di Roma, conquistato da Cesare, non li seguì. “Le vicende immediatamente successive dimostrano il misero fallimento dei piani dei congiurati e il trionfo del conquistatore della Gallia anche da morto”. (E. Horst). Dei congiurati nessuno sopravvisse a Cesare per più di tre anni e nessuno morì di morte naturale. Marco Antonio, risparmiato dai congiurati, ebbe buon gioco a far pendere i sentimenti del popolo verso l’ucciso e vendicarne la morte, per poi essere sconfitto dal nuovo Cesare, Ottaviano Augusto. Le ventitré pugnalate dei congiurati non avevano salvato la Repubblica già morta, ma aperto la strada a quella straordinaria vicenda storica che fu l’impero di Roma. Condividi