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Per una curiosa coincidenza, a poche ore dall’apertura del congresso nazionale dell’Arcigay a Perugia, il consiglio regionale dell’Umbria approva col solo voto contrario del Prc una legge che consacra il matrimonio – eterosessuale, dobbiamo credere - come fondamento dell’unico modello di famiglia ammissibile. Così, mentre dal capoluogo umbro il movimento lgbt richiama giustamente l’attenzione del paese sulla irrisolta questione delle unioni affettive fra persone dello stesso sesso, la Regione promuove un pacchetto di misure a favore della famiglia, con essa intendendo “il nucleo familiare formato da persone unite da vincoli di coniugio” (art. 1, co. 2). E ciò con buona pace delle ormai numerose norme nazionali che riconoscono rilevanza giuridica anche alla convivenza non fondata sul matrimonio; non ultimo l’art. 408 del codice civile in materia di “amministrazione di sostegno” delle persone incapaci di provvedere ai propri interessi, prodotto recente di quella cultura psichiatrica democratica che in Umbria trovò una delle sue espressioni più importanti, ed esso stesso oggetto di una prima coraggiosa sperimentazione proprio nella regione, grazie ad un clima che ancora oggi trova conferma nel senso laico di molte sue applicazioni giurisprudenziali. Stupisce dunque che in questo stesso contesto maturi oggi un deciso arretramento sul terreno della laicità, con una significativa parte della maggioranza di governo concorde con l’opposizione nel decretare un assurdo ritorno al familismo più antiquato. La centralità del matrimonio non è infatti l’unico passaggio degno di nota del testo di legge, che si apre attribuendo a torto alla costituzione italiana una concezione ‘hegeliana’ della famiglia “quale nucleo fondante della società”, secondo toni appartenuti semmai alla retorica familista propria del regime fascista. In questo quadro, ‘fondante’ ogni misura di sostegno è dunque il vincolo coniugale e nessuna altra forma di unione, mentre l’impianto complessivo della legge rinvia ad una famiglia (legittima) distributrice in via principale di prestazioni di cura che il pubblico non è più in grado di fornire, ma anche protagonista delle politiche di welfare cui la Regione delega le scelte essenziali. Il che, va da sé, non può che rafforzare la divisione del lavoro e i ruoli di genere al suo interno, a dispetto di tutti i buoni propositi circa l’opportunità di conciliare oneri familiari e lavoro (E di chi? Mai che le donne fossero menzionate come le principali dispensatrici del lavoro di cura prodotto nelle famiglie!). Accanto a ciò sta la rilevanza data al c.d. associazionismo familiare, che ha ovviamente un sapore culturale assai preciso e che diventa, prima dei nuclei familiari stessi, il vero interlocutore della Regione. Del resto la matrice confessionale della disciplina è ampiamente esplicitata in altre disposizioni: all’art. 3 lett. g) in combinato con l’art. 10, dove si prevede un voucher alle famiglie per garantire la libertà di scelta in materia educativa – ossia per mandare i figli in un istituto paritario, anziché nella scuola della Repubblica; all’art. 4 lett. b), dove è sostanzialmente richiesto ai consultori di attivarsi per dissuadere le donne incinte dall’interrompere la gravidanza. Che tutto ciò sia stato approvato coi voti del PD alla vigilia del congresso nazionale dell’Arcigay è davvero una coincidenza infausta. Non è affatto una coincidenza, invece, la concomitanza dell’approvazione della legge umbra con le cronache sull’affaire Bertolaso, intessuto dell’ormai consueto intreccio corruzione/sesso/affari. Entrambi i fatti condividono l’immagine di un’identità femminile deformata dagli stereotipi sociali e culturali più retrivi: la donna fornitrice di prestazioni di cura la prima, la donna fornitrice di prestazioni sessuali a pagamento, il secondo; la moglie-casalinga, la prima, la prostituta, il secondo. Non il prodotto di due culture opposte, ma il riflesso di una medesima ideologia che si fonda sulla negazione della libertà e l’autodeterminazione delle donne. Condividi