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di Eugenio Pierucci Le “gabbie salariali” che la Lega vuole reintrodurre, con la complicità di Berlusconi, rappresentano una esperienza che il nostro Paese ha vissuto nel secondo dopoguerra, quando furono istituite delle tabelle “rigide” che stabilivano differenti livelli retributivi corrispondenti ad altrettante macroaree territoriali. All’inizio queste macroaree erano addirittura 14, il che ci dice quanto variegato sia stato all’epoca il panorama salariale italiano. Poi, nel 1961, si ridussero a 2 e lo scarto retributivo fra queste venne fissato al 20%. In precedenza si arrivava anche al 29%. A giustificazione di questa differenza il fatto, come sostiene di nuovo oggi la Lega, che fra il Nord e il Sud del Paese c’era una consistente differenza per quanto riguarda il costo della vita. Il fatto è che questa sorta di discriminazione attuata nei confronti dei lavoratori delle aree più deboli del Paese condannò quelle aree al sottosviluppo e alla miseria e fu alla base di un profondo processo migratorio che trasferì milioni di lavoratori dal Meridione al Settentrione alla ricerca di migliori condizioni di vita. Per porre fine a questo stato di cose il movimento sindacale promosse unitariamente una grande mobilitazione che si concluse vittoriosamente nel 1969, allorché, in coincidenza con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, si arrivò alla conquista del salario unico nazionale. Una conquista che avvenne attraverso due passaggi: il primo il 21 dicembre 1968 quando, dopo una serie di scioperi e grandi manifestazioni di massa, l’Intersind (l’associazione che rappresentava le aziende a partecipazione statale) ruppe il fronte padronale costituito con Confindustria ed accettò l’eliminazione delle gabbie, sia pure gradualmente, fissando il termine ultimo al 1971. In tempi successivi anche gli imprenditori privati si adeguarono. Ora, grazie alla Lega di Bossi, che sta mettendo tassello su tassello per spezzare l’unità del Paese confidando sulla quiescenza di un premier che ha sottoposto al suo ricatto, si vorrebbe ripercorrere il cammino inverso, rispolverando la vecchia tesi della differenza del costo della vita fra il Nord e il Sud che è reale, come è però reale anche un’ancora più forte differenza nella distribuzione della ricchezza fra queste due aree. E’ innegabile, ad esempio, che nel Meridione le occasioni di lavoro siano assai inferiori rispetto ai distretti più sviluppati del Paese, tant’è che da qualche anno è ripreso con forza il flusso migratorio (si calcola che negli ultimi 10 anni non meno di 700 lavoratori meridionali, fra essi tantissimi giovani, anche qualificati professionalmente, abbiano imboccato la strada che conduce al Nord). Il fatto è che nel Sud, anche se il costo della vita è più basso, un solo stipendio, quando c’è non basta per mantenere una famiglia, mentre nel Nord è maggiore la possibilità di avere più di un’entrata, altrimenti non si spiegherebbe la differenza di reddito che è evidente fra queste due aree. Oltre a ciò va tenuto conto che già oggi, di fatto, gli stipendi degli operai e degli impiegati del Meridione sono inferiori del 15-22% rispetto a quelli del Settentrione (in Umbria questa differenza si aggira attorno al 10%) corrispondente, come si vede, alla differenza nel costo della vita che è calcolata attorno al 20%. Accrescere ulteriormente questa forbice attraverso l’istituzione delle “gabbie salariali” porterebbe perciò alla catastrofe. Altro dato sul quale riflettere: il pil pro-capite nel Meridione è inferiore del 40% rispetto a quello del Nord ed anche questo vorrà pur dire qualcosa. Condividi