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Sergio Ramirez* Era la notte del 17 luglio 1979. Stavamo terminando di spiegare ai delegati di Obando l'importanza del suo ruolo, quando udimmo in lontananza la sirena di Radio Monumental , che suonava per grandi avvenimenti. Somoza aveva lasciato il Nicaragua. Il nostro anfitrione, l'ambasciatore del Venezuela, stappò una bottiglia di champagne e, tra brindisi e abbracci, sembrava una festa di capodanno. La cerimonia d'addio della Giunta di governo nell'aeroporto Juan Santamaria era stata stabilita alle dieci di mattina. Mi trovavo a casa mia, stavo preparando la valigia, quando il presidente Carazo, che aveva mandato un furgone sotto casa per trasmettere comunicazioni e messaggi, chiamò per darmi la notizia. Urcuyo non voleva rinunciare. E mi consigliò con veemenza di andare, in ogni caso, immediatamente a Managua. Gli chiesi tempo per consultarmi con gli altri membri della Giunta; Violeta e Robelo vennero a casa mia. Daniel se ne era già andato da due giorni a Leon. Trovammo al telefono Bowdler e si dimostrò sorpreso del comportamento di Urcuyo. Gli dissi che tutto sembrava un piano preparato dal Governo degli Stati Uniti e la riprova era il suo finto stupore. Negò in maniera decisa e mi chiese di aspettare che Pezzullo chiedesse spiegazioni a Urcuyo a Managua. Humberto Ortega, dall'altra parte, sapeva già che il generale Mejia non avrebbe partecipato alla riunione programmata a Puntarenas, e che in più aveva emesso un proclama che incitava la Guardia Nazionale a continuare la lotta fino alla fine. Avanzava il giorno, cresceva l'incertezza e nel primo pomeriggio il presidente Carazo si presentò a casa mia per spingerci a partire. Allora, Violeta, Robelo ed io, di fronte all'impossibilità del viaggio a Managua, decidemmo di partire quella stessa notte per Leon; Carazo, allora, pensava, e ne parlammo dopo molti anni, che la Giunta avesse dovuto assumere tutti i rischi necessari per arrivare prima a Managua, se voleva consolidare l'autorità politica attorno a sé, come anche tracciare un destino civile per il paese. Ed il fatto che andassimo a Leon, sebbene non fosse sufficiente secondo il suo criterio, diminuiva un poco le sue preoccupazioni. Lo stesso pensavano, però da una distinta prospettiva, i membri della Direzione nazionale, che si erano affrettati ad entrare tutti in Nicaragua, eccetto Humberto Ortega, occupato a San José nella condizione della guerra. Di nuovo, sul finire del pomeriggio, Bowdler mi chiamò per chiedermi un po' più di tempo, finché fossero messe in atto le pressioni che stavano esercitando su Urcuyo, però non lo ascoltammo. Gli dissi che consideravamo rotto l'accordo sul cambio dei poteri. E quella notte volammo a Leon. La mattina del 18 luglio 1979, la Giunta di Governo venne ufficialmente insediata nell'aula magna dell'Università, alla presenza del rettore, il dottor Mariano Fiallos Oyanguren e del vescovo, monsignor Manuel Salazar e da lì proclamammo Leon capitale del Nicaragua. Occupammo gli scranni intarsiati, dall'alto schienale, riservati alle autorità accademiche e Tomas Borge, con aria protettrice, ci presentò uno ad uno, di fronte a un pubblico composto in maggioranza da giornalisti della stampa straniera, che al sapere della nostra presenza a Leon, erano arrivati da Managua attraversando le linee del fronte. L'aula magna, con le sue finestre di cristalli ed il suo balcone di ferro battuto, era da sempre nella mia vita. Da lì studenti eravamo partiti per la manifestazione del pomeriggio del 23 luglio 1959, le bandiere in prima fila, quando fummo massacrati dalla Guardia Nazionale; lì avevamo stabilito il mese seguente il posto di comando durante l'assemblea che chiedeva l'espulsione dei militari che studiavano nell'università, mentre Manolo Morales metteva a prova le sue trecento libbre di peso in uno sciopero della fame assieme a Francisco Buitrago, poi caduto con la guerriglia di Bocay nel 1963; lì avevamo organizzato il radio teatro nel quale cantava con la sua fisarmonica Jorge Navarro, che non avrebbe mai rotto il suo voto di povertà, caduto anche lui a Bocay; lì avevo dettato un corso sul boom del romanzo latinoamericano nell'ottobre 1967, quando arrivò dalla strada, trasmessa dalla radio, la notizia della morte del Che in Bolivia. Lì avevo ricevuto il mio titolo di avvocato nel 1964, a fianco di mia madre, vestito con una toga raffinata. Nelle strade affollate di gente che ci veniva incontro a salutarci, tutto era festa nonostante il dolore: nell'auditorium Ruiz Ayestas, nelle installazioni dell'università all'altro lato della strada, si poneva il velo su Fanor Urroz, uno dei luogotenenti di Dora Maria, caduto il giorno prima nei combattimenti per la liberazione di Nagarote, sulla strada per Managua. Mi dissero che era il genero di Raul Elvir, un poeta amico di quando ero studente compagno di lunghe notti insonni nelle taverne di Leon, esperto dei passeri del Nicaragua come nessun altro. Lo scoprii tra i parenti afflitti, vestito di bianco come sempre e mi avvicinai per abbracciarlo. Nel pomeriggio andammo a Chichigalpa per partecipare al primo comizio all'aperto. Daniel, prima che arrivassimo, aveva consegnato il primo titolo di proprietà della riforma agraria a La Maquina, vicina a Leon, a dei contadini di una cooperativa appena improvvisata. A Chichigalpa trovammo che la gente era accorsa in massa allo stadio di baseball dove si svolgeva la cerimonia. Parlammo tutti, allora, uno dopo l'altro, un lungo comizio intervallato da intermezzi musicali, che finì al tramonto, quando i più tornarono a Leon ed io proseguì per Chinandega con Jaime Wheelock per ricevere una colonna guerrigliera che arrivava da Somotillo. La truppa dei ragazzi contadini si mise in fila nel parcheggio dell'Hotel Cosiguina, chiuso per la guerra e noi li arringammo, indovinando i loro volti nell'oscurità. Alla fine, mandammo a chiamare il gestore dell'albergo perché ci consegnasse le chiavi e si potesse dormire così sotto le lenzuola, in stanze con l'aria condizionata. Per il momento, il potere che nasceva dall'irrealtà serviva per azioni come quella. La mattina del 19 luglio 1979, mentre facevamo colazione in cucina, qualcuno gridò di avvicinarci alla televisione accesa nel corridoio. Sullo schermo, il generale Sandino si toglieva e si rimetteva il cappello, l'unica sua immagine televisiva, ricavata da un vecchio telegiornale Movietone, mentre in sottofondo suonava La tumba del guerrillero di Carlos Mejia Godoy ed apparivano a seguire delle riprese di camion carichi di ragazzi in verde-oliva che sulla strada per Masaya agitavano bandiere e inalberavano i fucili, mentre la gente entusiasta li riceveva con grande strepito, tra le grida, i clacson, le raffiche in aria. In mezzo al baccano, Henry Ruiz ci chiamò via radio dall'aeroporto di Managua, dove si era già accampato il Fronte sud: Bowdler, che era già arrivato, reclamava la sua cerimonia di passaggio delle consegne. Io risi per l'assurdità perché non c'era niente da consegnare, però siccome Henry insisteva, alla fine cedemmo, Daniel per primo; e adesso entrambi ridevamo per il fatto che fosse Henry Ruiz, tra tutti, quello che si preoccupava di fare contenti gli yankee. Con quella missione, Violeta ed io andammo a Managua quello stesso pomeriggio a bordo di un aereo pilotato da Modesto Rojas, che aveva fatto molti dei voli di rifornimento notturno da San José. Il cielo cambiava di tonalità al tramonto del sole, dal violetto al giallo zafferano, fino a perdere intensità in quella luminosità opalina che Ruben Dario chiamava la luce della lampada da comodino. Il Momotombo si alzava sopra le acque grigie del lago, mentre le luci di Managua cominciavano ad accendersi nella distanza brumosa e verso il sud scomparivano i contrafforti della sierra. Anche quello era irreale. Il Quetzacoatl II, l'aereo inviato dal presidente Lopez Portillo per trasferire il gabinetto del governo da San José, era già atterrato e mi trovai con mia moglie nella lobby dell'hotel Camino Real, appena sbarcata tra i passeggeri. L'atmosfera era quella dell'attesa di un ballo imminente. Di Bowdler non c'era traccia e nemmeno di Obando, sebbene fosse già tornato la notte precedente. In tutti i modi decidemmo, d'accordo con Henry, di presentarci alla cerimonia dopo il comizio di piazza e al mattino del 20 luglio 1979, Violeta ed io tornammo a Leon, questa volta con Moisés Hassan, per entrare tutti e cinque insieme a Managua. La carovana nella quale avremmo fatto il percorso trionfale sulla strada ci aspettava già pronta nel parco Jerez ed il vescovo, monsignor Salazar, veniva con quella. Quindi, dopo la celebrazione della vittoria nella piazza, incontrai nel Palazzo Nazionale Regis Debray, vestito da safari. Salì la scalinata ed entrai nel salone dove attendeva monsignor Obando per la cerimonia di passaggio delle consegne, compiuta, alla fine, di corsa. Mi si avvicinò Bowdler, sempre composto e sorridente, e mi disse con il suo accento argentino che non finiva di divertirmi: «A palazzo, infine!». * Scrittore, già vicepresidente del Nicaragua sandinista. Questo brano è tratto dal suo libro "Adiòs muchachos. Una memoria della rivoluzione sandinista", Frilli editore, pp. 256, euro 15,00 Condividi