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di Eugenio Pierucci Cosa è meglio per l'Italia, avere i conti dello Stato in regola e centinaia di migliaia di operai in mezzo alla strada con una miriade di fabbriche ferme, oppure superare i rigidi vincoli di Maastricht per diminuire i conflitti sociali? E' su questa alternativa che dobbiamo decidere sin da subito, prima cioè che, come si suol dire, i buoi siano scappati dalla stalla, per cui anche se la chiudessimo non otterremmo nulla di buono. In verità Bruxelles è parsa un po' meno rigida del solito di fronte alla tragica situazione nella quale ci si siamo venuti a trovare noi europei dopo che abbiamo importato dagli Usa la crisi finanziaria più grave del dopoguerra, avendo perfino autorizzato gli Stati membri ad andare oltre, sia pure con cautesa, al fatidico 3% fissato come rapporto fra deficit e Pil. Questo per avere le risorse necessarie per rimettere in moto il meccanismo che si è inceppato. Ma questa misura da sola sarà sufficiente per sconfiggere la maledetta crisi? Non lo crediamo, tanto più se, a quanto pare, il nostro governo non intende approfittare neppure di questa modesta occasione che gli è stata offerta per mettere sul piatto della bilancia qualcosina di più della miseria sin qui stanziata. In verità di proclami ne ha fatti tanti, l'ultimo dei quali anche di recente, subito dopo la conclusione del Tavolo convocato per discutere degli aiuti a sostegno della filiera dell'auto che pare pericolante più di ogni altra, ma di fatto ancora non si è visto nulla e se non si deciderà alla svelta c'è il pericolo che solo in questo comparto si perdano 300 mila posti di lavoro. Non lo diciamo noi, ma la leader degli industriali italiani per cui nessuno ci potrà accusare di fare allarmismo. Strano, no? Quando governava Prodi, Tremonti e Berlusconi erano in Europa i più scettici in assoluto nei confronti dei vincoli impostici dall'Unione, ora che al timone del Paese ci stanno loro li ritroviamo completamente dall'altra parte, fra i più rigidi guardiani della sacralità dei conti pubblici, i più ortodossi fra tutti rispetto alle direttive che ci vengono dal governatore della Bce Trichet, uno che si è deciso ad abbassare i tassi d'interesse quando i guai erano ormai stati fatti. Temiamo, dunque, che la moderata apertura di Bruxelles, tanto più se gestita all'italiana come pare voglia fare il duo Berlusconi-Tremonti, non possa dare buoni frutti e, a quanto pare, anche il neo presidente degli Usa, Barack Obama, pare pensarla così. Lui, infatti, la questione la vuole affrontare di petto, fortemente deciso a cambiare strada, a distinguersi profondamente da chi l'ha preceduto e che porta tutte le colpe per il terremoto che sta scuotendo il mondo intero, visto che nell'intero globo, se non si farà presto a rimediare, i posti di lavoro a rischio sono, stando agli esperti dell'Organizzazione internazionale del lavoro, 50 milioni. Il piano di interventi predisposto dal nuovo inquilino della Casa Bianca, e già approvato dalla Camera, è infatti di oltre 800 miliardi di dollari, una cifra che fa impallidire l'Europa tutta. E un terzo di questa cifra colossale è destinato alle famiglie, sotto forma di sgravi fiscali (tanto per fare qualche cifra sarà di 1.000 dollari il risparmio fiscale per i redditi fino 150.000 dollari, 12-13 dollari a settimana per quelli più bassi. Sarà invece di 25 dollari l'aumento settimanale previsto per gli assegni di disoccupazione e di 79 dollari sarà l'incremento massimo mensile sulle tessere per i buoni alimentari), una massa di liquidita per stimolare i consumi, rispetto alla quale l'umiliante "social card" con la quale risponde il nostro governo ci fa fare la figura dei pezzenti. E non finisce qui,perché nel piano americano figurano 58 miliardi di dollari per sostenere i piani di assistenza per i più poveri finanziando i singoli Stati e 102 miliardi andranno per il sostegno ai lavoratori, fra assegni di disoccupazione e programmi di riqualificazione professionale. Infine, per quanto riguarda l'occupazione, l'obiettivo è di creare o salvaguardare, nel triennio 2009-2011, qualcosa come 3-4 milioni di posti di lavoro. Non c'è male per quella che fino a ieri è stata la patria dell'iperliberismo, quanto basta per fare fischiare le orecchie dei ritardatari del libero mercato (cioè di quello senza regole, che si sono inventati la storiella della mobilità che si è tradotta poi in precarietà) di casa nostra, molti dei quali li ritroviano ben piazzati dentro il Pd. Barack Obama ha individuato, dunque, la strada dell'incremento dei consumi e del benessere generalizzato quale unica via per portare il suo Paese fuori dalla palude e l'ha imboccata con decisione, incurante dell'opposizione dei repubblicani che faticano a comprendere la necessità di più Stato nell'economia per risolvere i guai del mercato che loro stessi hanno prodotto. Finché prosegirà questo cammino noi saremo con lui. Non è certo il socialismo al quale aspiriamo, ma come avvio possiamo accontentarci. Va detto, per la verità, che Obama non ha nessun Trichet che lo tira per la giacchetta ogni volta che sgarra un po', come pure non è tenuto a rispettare le rigide regole fissate dall'Europa, quindi non ha alcuna remora ad aumentare il deficit e il debito pubblico, purché ciò salvi il salvabile. Certo, sul piano formale dell'ortodossia economica capitalistica siamo messi meglio noi che ci affanniamo, invece, a rispettare il "patto di stabilità" che ci è stato imposto, ma ciò che conta alla fin fine è la sostanza delle cose e non v'è dubbio che in questo senso le famiglie americane sono messe assai meglio delle nostre. Condividi