Lo sciopero generale parla con la lingua semplice della giustizia sociale, ma anche con la lingua più complessa della verità, del tipo di società in cui viviamo. Quest’ultima si legge bene nelle reazioni che ha suscitato. Mai è stato così vasto il coro di dissenso e di critica dello sciopero, dalle forze politiche ai grandi organi di informazione, agli opinion maker, il coro è stato pressoché generale. Una reazione di regime, si potrebbe dire, ma di quale regime? La curvatura neo-autoritaria che il sistema è venuto assumendo è stata, e non da ora, da più parti denunciata. Ma nel tempo del coronavirus, essa è stata anche recentemente attribuita, in importanti ambienti intellettuali, alla forma e alla sostanza delle decisioni politiche che hanno investito il rapporto tra la salute e le libertà individuali. Ma allora perché questo sciopero generale subisce questo ostracismo della politica, malgrado esso sia così fuori da quel campo?

La verità è che la curvatura neo-autoritaria non proviene dalla difesa della salute pubblica, bensì dalla difesa del profitto privato. Del resto, questa curvatura neo-autoritaria che esautora il Parlamento, che si fonda sulla scomparsa del protagonismo dei partiti, sulla cooptazione nell’area di governo dei corpi intermedi, ha sempre avuto alla base dell’intera costruzione la demonizzazione del conflitto sociale, ridotto nella cultura dominante a patologia del sociale. Non sono le libertà individuali ad essere sistematicamente aggredite. Esse, anche quando per le necessità connesse a un’emergenza sanitaria, vengono nella realtà temporaneamente limitate, contemporaneamente vengono assunte culturalmente a linfa vitale della società contemporanea. Semmai il discorso critico in questo campo deve investire la nuova generazione dei diritti della persona e di tutti i soggetti della diversità, ma anche questi investono non l’emergenza, bensì la conformazione culturale di fondo del modello capitalistico patriarcale. In ogni caso, a fare da fondamenta alla costruzione della società del turbo-capitalismo sono state la riduzione del lavoro e dei bisogni sociali a pura variabile dipendente del nuovo tipo di accumulazione, e la messa in mora del conflitto.

Se non fosse una contraddizione in termini, si potrebbe parlare di uno stato di eccezione strisciante. Fuori dalla provocazione resta l’assetto tecnico-oligarchico, la cui lunga costruzione è durata l’intero ciclo della sconfitta del Movimento operaio, ciclo che ha rovesciato il paradigma dei 30 anni gloriosi. La proclamazione dello sciopero generale e le reazioni suscitate nelle istituzioni e nella politica hanno funzionato intanto come una cartina al tornasole. Essa ci ha rivelato, o confermato, la natura neo-autoritaria dell’assetto di governo del Paese e le tre grandi crisi attuali: quella della democrazia, della politica e della sinistra. In quest’ultima, i riformisti, anche in questa occasione, si sono distinti per l’inconsistenza della loro posizione. Il loro leader, Enrico Letta, in una lunga intervista a uno dei maggiori quotidiani del Paese è riuscito a riempire un’intera pagina senza mai nominare, una sola volta, i lavoratori. Altro che laburisti! Così si spiega perché non possono chiamarsi socialdemocratici, né tantomeno socialisti. Ma così restano solo un’area di opinione, anche di buoni sentimenti, senza però alcun riferimento sociale principale, cioè senza una radice, e senza un programma credibile nei ceti popolari, nelle classi subalterne, nel grande campo del disagio sociale. Disagio e crisi sociale che i critici dello sciopero non vedono nella loro drammaticità e che comunque appare loro muta nelle richieste e nelle rivendicazioni.

 

Invece, povertà e lavoro, povertà nel lavoro, gridano seppur in una lingua sconosciuta alla politica. Per non tornare a citare i dati di una realtà statisticamente già indicata come devastata, dalla perdita del salario agli abbandoni del lavoro perché insopportabili per gravosità, per precarietà, per povertà, alle pratiche discriminatorie e vessatorie, bastino alcuni segnalatori tra i più recenti di una condizione lavorativa e sociale intollerabile. Stanno aumentando in gran numero i distacchi dai contatori di luce e gas, in parte realizzati dalle aziende fornitrici per morosità (di chi non ce la fa più a pagare le bollette), in parte addirittura per scelta dell’utente che vi rinuncia per cercare qualche altra fonte a minor prezzo. Basta questo per dire fin dove si è giunti nel degrado di tanta parte delle condizioni sociali. Nel campo dell’impresa, continuano i licenziamenti. C’è stato un tempo in cui lo Statuto dei diritti dei lavoratori veniva rivendicato per mettere fine alla possibilità per il padrone di licenziare ad nutum, senza cioè motivazione.

 

Oggi, si licenzia per telefono o con un sms, appunto. È stato detto dai più attenti tra i critici dello sciopero che ci sarebbero ben altre ragioni per scioperare: i bassi salari, le condizioni di lavoro. Mi piacerebbe conoscere la loro opinione se tra le motivazioni dello sciopero ci fosse per esempio, quello del sindacato belga che ha rivendicato l’aumento generalizzato e automatico per legge di tutte le retribuzioni del 4,5%. Ma in ogni caso anche i critici più attenti debbono comunque aggiungere che lo sciopero generale è inopportuno. Fa parte del nuovo contesto culturale. Perché? C’è purtroppo una sola risposta possibile a questa domanda. La risposta è perché il conflitto deve essere bandito in un assetto di governo tecnico-oligarchico, perché fuori dal governo ci sarebbero solo i barbari. Hic sunt leones. Lo sciopero generale rivela proprio per questa via la sua potenzialità, quella di spezzare l’autoreferenzialità della classe dirigente e del governo.

C’è solo da sperare che i barbari possano cogliere l’occasione per prendere la parola questa volta e farla valere oggi e domani. Giusto l’appello di Cgil e Uil alla partecipazione del popolo alle manifestazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, alle manifestazioni nei giorni dello sciopero. Lo sciopero generale può diventare una giornata di lotta popolare. Un versante della critica alla decisione di Cgil e Uil si è appuntato anche su una presunta improprietà del terreno scelto per il conflitto, cioè la legge di bilancio, la finanziaria. Si vorrebbe far passare quest’ultima quasi per un’operazione ragionieristica, un’operazione di routine. La tesi non ha alcun fondamento. La finanziaria, la legge di bilancio, traduce le scelte di politiche del governo in impegni di spesa e in ricerca delle risorse per effettuarle. Quando la politica aveva una consistenza, quando il Parlamento era il protagonista di queste scelte, quando i partiti facevano vivere i loro programmi anche in questo passaggio, quando il sindacato stava in campo come soggetto sociale e politico, la legge di bilancio era un indicatore primario dell’indirizzo politico e programmatico del governo stesso.

Così poteva accadere che il dibattito parlamentare su di esso durasse mesi e si immergesse in un conflitto sociale e politico aperto con scioperi e manifestazioni, nelle quali spesso il ministro del Tesoro era il bersaglio principale e pour cause. Valse anche per una personalità rilevante come quella di Nino Andreatta. Sulla legge di bilancio caddero dei governi di fronte al manifestarsi di azioni programmatiche diverse e inconciliabili che proprio lì trovavano la loro prova regina. Accadde così anche al primo governo Prodi, proprio nel banco di prova della sua seconda finanziaria. Non tiene perciò neppure quell’argomento per criticare lo sciopero generale del 16 dicembre. Come non tiene l’obiezione rispetto alle politiche fiscali e alle rivendicazioni del sindacato. Il fisco è solo uno degli strumenti pubblici con i quali si possono attaccare le diseguaglianze, ma la sua funzione redistributiva non può essere negata, come invece di fatto fa il governo Draghi. Da decenni le grandi ricchezze in tutto l’Occidente hanno scandalosamente visto ridotto su di loro il prelievo fiscale. Da tempo immemore, in Italia l’evasione fiscale è, grazie alla simmetria del prelievo (alla fonte tra gli uni su quello dichiarato per altri), contro il lavoro dipendente.

Se l’inversione di tendenza non si produce ora, che è il tempo che si vorrebbe della ripartenza, vuol dire semplicemente che si vuole perpetuare oggi e domani lo stato di ingiustizia presente, affinché questo possa stabilmente essere la base della ripresa stessa. Se a tutto ciò non si oppone il sindacato, allora chi lo dovrebbe fare? In queste condizioni, lo sciopero non è una scelta facile, ma è una scelta necessaria, seppure difficile. Vale allora un’antica invocazione “Il n’est pas nécessaire d’espérer pour entreprendre ni de réussir pour persévérer” (“Non c’è bisogno di sperare per combattere né di riuscire per perseverare”). Il motto è di Guillaume d’Orange, ed è di circa 500 anni fa. Il motto non era un invito a sognare, ma a intraprendere. A intraprendere il nuovo cammino. Gli portò fortuna.

Fausto Bertinotti

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