di Leonardo Caponi

PERUGIA - Il centro storico di Perugia continua a vivere una crisi molto acuta. Da ultimo ha chiuso il vecchio Caffè Turreno, che si è portato malinconicamente via con se il ricordo di un’epoca memorabile della cultura e dell’identità perugina del dopoguerra e di tutto il ‘900; una stagione tra le più fulgide per le idee e l’intellettualità di sinistra e progressista che ha coinciso, negli anni ’70 e nel decennio successivo, con uno dei periodi più vivi e floridi per lo sviluppo e la modernizzazione della città. Mentre i cinema rimangono inattivi, voci insistenti danno per certa la chiusura di alcuni altri “marchi” ed esercizi “storici” (tra i pochi rimasti) compresi nell’area che va da Piazza Italia a Piazza Danti. Ma altri parametri, più o meno scientifici (il calo del numero degli studenti e la crisi degli affitti, il gap tra le percentuali di aumento dei residenti in centro e quelli della periferia, i problemi della “sicurezza” ecc.), stanno ad indicare una condizione di declino che, probabilmente, non ha raggiunto ancora il fondo. Per la verità, c’è da dire che la attuale amministrazione comunale qualche passo avanti lo ha compiuto: se non altro, ha ammesso l’esistenza del problema che, per anni, era stata tenacemente negata da quelle precedenti. Dopo una altrettanto prolungata e  ostinata rimozione è stata inoltre ammessa l’esistenza (resa peraltro evidente dal verificarsi di fatti clamorosi) di una emergenza sicurezza, chiedendo l’intervento straordinario del governo. 

   Insomma, qualcosa è stato fatto; però, a ben vedere, si ha l’impressione che, come dire?, si sia rimasti alla superficie del problema, senza intaccarne la sostanza. Ci si è mossi, con dovizia di parole e, come si usa oggi, con molta “immagine”, nell’ambito e nell’ottica di quella che potrebbe essere definita una “politica delle feste”, che non  affronta il nodo strutturale che è alla base della crisi. Creare occasioni di affluenza di pubblico è senza dubbio giusto e utile; ma esse, in quanto appunto “occasioni”, hanno necessariamente un carattere temporaneo e saltuario e sono quindi insufficienti allo scopo se, contestualmente, non si reintroducono quote di vita e di attività “stabile” e se, per usare una frase spiccia, non si smette di costruire in periferia.
   Questa ultima condizione, in particolare, è decisiva. Facendo un giro di questi tempi per i quartieri e le aree esterne, alla vista dei nuovi megacomplessi urbanistici e commerciali che continuano a crescere come i funghi dopo la pioggia, si ha la dimensione fisica di quanto possano alla fine sembrare vacui o addirittura irridenti tutti i buoni propositi per “la ripresa del centro”.

   E’ una questione di impianto concettuale con il quale si affronta la questione: il problema non è intervenire sull’acropoli perché c’è da “accontentare” i commercianti e, su un altro versante, i residenti e le loro associazioni. E non è nemmeno soltanto quello di fare del centro un quartiere meno disgregato, più sicuro e più “fruibile” di quello che è attualmente. Il punto è combattere la disarticolazione attuale della città e stabilire se Perugia possa e debba avere (come era un tempo, quello del “Turreno” ad esempio, e come hanno ancora molte città consimili) un polo di aggregazione e identità unitaria, un’”anima viva” in grado di contribuire a contrastare le spinte disgregatrici e centrifughe così forti nelle società liquide ed egoiste di oggi.
   Per riportare residenti e attività al centro ci vuole  una “politica”, che non si limiti a prendere atto delle spinte spontanee del mercato (oggi peraltro sempre più rare e di carattere speculativo) e a predisporre per loro il miglior ambiente possibile, ma che si proponga di regolarle e governarle.
    Per evitare di deprimere ulteriormente il settore delle costruzioni, si tratta di dare alle imprese nuove convenienze, meno impattanti e più utili alla crescita equilibrata della città, con un uso mirato delle leve fiscali e degli strumenti di programmazione urbanistica e commerciale, al fine di incentivare il recupero e le ristrutturazioni piuttosto che le nuove costruzioni e gli investimenti nelle aree di degrado piuttosto che il consumo di nuovo territorio.
   Perugia può contare (oggi anche con le “Carceri”) su un vasto patrimonio pubblico in tutto o in parte abbandonato. Esso va utilizzato in maniera compatibile rispetto all’ambiente circostante e alle sue “vocazioni”, sfuggendo al gigantismo e alla pura logica del “businnes” privato. Che poi non arriva mai. La fine del megaprogetto del Mercato Coperto dovrebbe pure avere insegnato qualcosa.

dal Corriere dell'Umbria del 4-11-2012

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