di Giuseppe Castellini

Quello che era stato previsto su queste colonne dopo l’approvazione del ‘Decreto Dignità” si è avverato. Con due notizie che appesantiscono ulteriormente la già difficile situazione del Pd, dove peraltro su tale provvedimento si è aperta una frattura interna dopo che i dem hanno presentato un emendamento contrario all’aumento delle mensilità da erogare, previsto appunto dal Dl Dignità, ai lavoratori che subiscono un licenziamento illegittimo individuale. Ciò che sta accadendo, e che non era difficile prevedere, lo fotografa la rilevazione dell’Ipsos di Nando Pagnoncelli, che è un istituto internazionale accreditatissimo.

 

Il Dl Dignità piace alla maggioranza degli italiani e anche alla maggioranza degli elettori del Pd. È passato il messaggio che il M5S voleva far passare

Non solo il Dl Dignità piace alla netta maggioranza degli italiani (con la punta del 75% di gradimento dei cittadini italiani che raccoglie la parte del provvedimento che prevede multe salate per le imprese che prima incassano incentivi pubblici e poi delocalizzano), ma piace anche agli elettori del Pd. L’effetto, secondo un’altra rilevazione sempre dell’Ipsos, è immediato: se si votasse oggi il Pd scenderebbe al 17% (dal 18,7% delle elezioni politiche del 4 marzo), mentre il M5S - il ‘padre’ del decreto, curato dal ministro Di Maio -  prenderebbe il 31%, meno del 32,7% riscosso alle scorse politiche ma più del 29,8% che l’Ipsos gli assegnava nella precedente rilevazione del 27 giugno. Rilevazioni che, essendo lontane dalle elezioni, valgono quello che valgono, ma che tuttavia esprimono chiaramente delle tendenze.

Insomma, è passato il messaggio che Di Maio e il M5S volevano far passare: cari lavoratori, noi siamo dalla vostra parte, mentre quelli di prima avevano il cuore che batteva da un’altra parte. Per ora non possiamo fare di più, ma con noi i vostri interessi sono molto più tutelati.

 

Chiamata in causa la fisionomia sociale del Pd

È la fisionomia del Pd ad essere chiamata in causa. E per fisionomia vanno intesi i ceti sociali a cui i dem fanno riferimento. Un tema, peraltro, che tocca quasi tutti i partiti socialisti europei. Il socialismo democratico europeo, ma anche i Democratici americani, dall’inizio degli anni Novanta hanno lavorato su questo schema: con noi la globalizzazione liberalizzatrice verrà spurgata degli elementi più nocivi (abbassamento dei diritti del lavoro, flessibilità assoluta al ribasso delle retribuzioni di fatto, aumento della disuguaglianza, riduzione di fatto del welfare e così via), mentre se ne incamereranno i benefici. Fu la famosa terza via. Che alla fine è stata travolta, perché la globalizzazione non capitalista, ma turbocapitalista come la definisce Edward Luttwak, invece di essere regolamentata ha regolamentato la Terza via, diventandone padrone.

Gli effetti del turbocapitalismo su vaste masse dei Paesi avanzati sono stati pesanti e il socialismo democratico europeo e americano ha pagato un pesante dazio in termini di consenso. Insomma, invece di domare, è stato domato.

Per tornare al Pd, ma tenendo ben presente questo quadro internazionale geopolitico, era nato per difendere gli interessi dei ceti meno abbienti e dei ceti produttivi della piccola borghesia – anche operaia - e di pezzi di media borghesia. Un partito del lavoro contro le rendite, fautore dell’ascensore sociale avvicinando le condizioni socio-economiche di partenza delle persone. Un partito con questa base sociale ma, per usare un termine sindacale, ‘confederale’, nel senso di saper coniugare la difesa degli interessi della sua base sociale con quelli più generale del Paese. Però a sentirsi tradita è stata proprio la base sociale del Pd, che ha fatto elettoralmente le valigie scegliendo soprattutto il M5S e, in misura meno e più recentemente, la Lega. Perché la base sociale a cui il Pd guardava alla sua nascita è proprio quella che ha pagato il tributo più elevato al turbocapitalismo che si era promesso di domare e che non si è sentita tutelata da chi aveva promesso di farlo.

Questo ampio mondo aveva bisogno di segnali e il M5S glieli ha dati anche attraverso il Decreto Dignità, mettendo ancora di più il Pd in crisi di consenso. Certo, il Dl dignità è solo un segnale, ma i segnali in politica – e in economia – contano. Dicono da che parte si sta.

 

Il colpo di grazia del renzismo

Il colpo di grazia al Pd, che era comunque già in crisi, l’ha assestato il renzismo. Che al progetto iniziale dem non ha mai creduto, puntando invece al ‘Partito della Nazione’, cercando di raccogliere l’invaso del ceto medio italiano. Invece ha raccolto un ceto neo borghese che è importante, ma che da solo è elettoralmente limitato. E il Pd renziano non è riuscito a creare un’alleanza sociale più vasta, perdendo anzi quello che per il Pd era il ‘core business’.

Hai voglia a gridare al populismo, a pronosticare sfracelli. Niente, lo hanno abbandonato lo stesso. E queste grida manzoniano dem sono rimaste tali, del tutto inefficaci. Colpa della mancanza di cultura politica e di un’analisi seria della società italiana.

 

L’errore di non aver accettato la sfida di un ‘Contratto’ di governo offerto dal M5S

Un treno era passato e sarebbe stato bene coglierlo. L’offerta da parte del M5S di un ‘Contratto’ di governo. Un’ipotesi affondata da Matteo Renzi e da un’assemblea nazionale dem confusa e ferita dal risultato elettorale del 4 marzo. Il Pd avrebbe potuto avere in quello scenario, accettando la sfida del ‘Contratto’ con il M5S, un ruolo importante. Di garante della scelta europeista, di capacità di governo rispetto a un ceto dirigente del M5S inesperto, di coautore di un recupero della tutela di quegli interessi della base che li ha lasciati. Un ruolo ben più forte di quello confuso, piegato e piagato garantito dall’opposizione. L’unica speranza del Pd è che il Governo gialloverde sbagli così tanto da fare sfracelli. Una strategia un po’ povera.

 

E allora?

Il Pd è di fronte alla prospettiva di una dissoluzione. Perché, se la discesa elettorale dovesse arrivare sotto il 15%, è inevitabile la deflagrazione del partito, la sua frantumazione. Quello che aspetta il ceto dirigente del Pd è una battaglia per la vita o la morte. E ormai non basta più, perché stonato, il richiamo della foresta dell’essere di sinistra. Troppi treni sono passati. Sulla banchina il Pd attende l’arrivo di qualcosa, litigando e confusamente aggrappandosi a ogni cosa che sappia di ‘sinistra’. Ma è un attendere vano. Una situazione surreale. Un progetto fallito.

 

*Questo articolo è uscito sul quotidiano Nuovo Corriere Nazionale. Per leggere gratuitamente l'edizione digitale sfogliabile da pc, tablet e smartphone basta andare su https://www.nuovocorrierenazionale.com. Per andare direttamente all'edizione di oggi del giornale sfogliabile il link è: https://www.nuovocorrierenazionale.com/edizione-digitale.

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