di Leonardo Caponi

PERUGIA - Chissà se Papa Benedetto XVI avrà “vissuto” le struggenti atmosfere del Malecon di L’Avana all’ora del tramonto, sia che lo si guardi dalla “hermosa” terrazza verde de l’Hotel National, sia che, dal punto esattamente opposto, si veda la sfera infuocata lentamente immergersi nelle acque lontane del Golfo del Messico?! Probabilmente no, perché le visite ufficiali filtrano la realtà di un Paese attraverso gli incontri istituzionali e lasciano spesso al privilegio del viaggiatore anonimo la scoperta degli aspetti più di dettaglio, che pure concorrono, come e forse più degli altri, a dare la “cifra” di una nazione e della sua gente.

La cosa certa tuttavia è che la Chiesa (quella cubana e quella romana) ha ben capito la realtà della Cuba di oggi ed ha adottato nei suoi confronti una saggia linea di equilibrio che si distacca da quella oltranzista dei “dissidenti” e da quella aggressiva (dopo cinquanta anni mi verrebbe di chiamarla imbecille!) degli Stati Uniti; gli uni si ostinano a volere semplicemente il “crollo” del regime cubano, gli altri la “resa”, che sono in pratica la stessa cosa e che, probabilmente, non avranno mai. E i primi senza i secondi conterebbero meno di niente isolati e distaccati come sono dalla società cubana.

Il Papa si è espresso (e non è la prima volta della Chiesa), almeno formalmente, per una linea di comprensione e riconciliazione; è tornato a criticare il “bloqueo” americano, ha auspicato l’unità di tutto il popolo e il cambiamento senza traumi. Rimane da stabilire se lo faccia per responsabilità o furbizia, comprendendo nella seconda ipotesi una stima sulla saldezza del potere cubano, una conseguente valutazione dei rapporti di forza ritenuta ancora non sufficientemente favorevole o la fiducia in una deriva ormai inarrestabile e irreversibile dei processi nella direzione voluta. Probabilmente tutte queste cose, ma è comunque importante che la Chiesa rifugga la perpetuazione della linea del muro contro muro e che decida di giocare la sfida in campo aperto; e poi, come si dice, chi avrà più filo tesserà più tela e chi guarda con simpatia all’esperienza cubana potrà e dovrà confidare in essa e nella sua forza di durata e espansione.

L’altra cosa certa è che Cuba è in una fase cruciale della storia della sua ultima rivoluzione ed all’avvio di importanti cambiamenti. Chi ha visitato l’isola di recente e guarda con realismo e senza gli occhi foderati di prosciutto alla sua realtà, sa che un rinnovamento ed una apertura sono necessari come l’aria. La linea di una economia pianificata, nella quale lo Stato conserva la proprietà e la direzione delle imprese e dei comparti strategici e “apre” al mercato i settori minori, appare giusta e pertinente. Raoul sta seguendo questa linea, che non so se possa essere accostata, in una dimensione minore e certo più controllata, all’esperienza cinese (per chi pensa che in Cina oggi non regni il capitalismo) oppure alla NEP (Nuova Politica Economica) di leniniana memoria, ma che può essere quello che serve per dare una scossa all’economia, imprimere il dinamismo che ci vuole per creare benessere e ricchezza, quei miglioramenti materiali, urgenti, senza i quali la Rivoluzione tradisce le attese e le speranze per le quali è nata e rischia di non parlare più alla gente. Le “fonti” ufficiali del governo e del Partito cubano si affannano a dire che le nuove norme (in materia di compravendita delle proprietà, di libertà alla piccola impresa privata ecc.) non costituiscono una abdicazione del Socialismo; e hanno ragione, perché è vero che l’economia dell’isola paga un prezzo impressionante all’assedio e al blocco americano e occidentale; però è anche vero che una parte delle difficoltà vengono da inefficienze e ritardi del sistema, di un sistema che si è adagiato su forme accentuate di pigro assistenzialismo e troppo scarsa produttività. Il recente Congresso del Partito Comunista e la successiva Conferenza programmatica hanno messo in luce situazioni allarmanti come il fatto che una grande percentuale delle terre coltivabili giace “incolta” a causa della tendenza alla “urbanizzazione” della popolazione rurale, che trova più agevole e garantita la vita in città. Rimuovere lo scambio tra bassi salari, ma poco lavoro e vita comunque garantita non è cosa facile e trova le remore o la vera e propria opposizione di una parte consistente della popolazione e, di conseguenza è cosa discussa, più o meno apertamente, anche all’interno del PCC. Questa constatazione rivela la totale infondatezza di una lettura della realtà cubana di oggi come quella di una base popolare impaziente sulla via del cambiamento e di un vertice del potere che farebbe da ostacolo. La situazione è più complessa e investe il “corpo” stesso della società cubana, così come più articolato e complesso è il giudizio da dare sulle “libertà” formali consentite da un regime che, anche a giudizio di molti osservatori indipendenti (tra cui intellettuali e studiosi occidentali), ha la connotazione del paternalismo autoritario, piuttosto che del regime di polizia.

Del resto la “chiusura” al multipartitismo a Cuba ha radici teoriche e storiche (recentemente ribadite in maniera intransigente dal Presidente Raoul) che possono essere o meno condivise, ma che del tutto peregrine non sono e obbligano ad una riflessione anche gli occhi più critici della realtà cubana. La unità (anche politica) del popolo cubano è ritenuta la condizione essenziale della autonomia di una piccola nazione che, altrimenti nella situazione data, ricadrebbe inevitabilmente sotto il dominio di una potenza superiore, come è per molti similari Paesi dell’America Latina. Raoul cita il precedente storico del periodo seguente alla liberazione dalla dominazione spagnola (la rivolta capeggiata dall’eroe nazionale Josè Martì) alla quale succedette un’altra dominazione, quella americana, che approfittò della divisione dei cubani e fu voluta e favorita da qualcuno dei partiti in campo.

L’altra (e ultima di questo articolo) cosa certa è che la sopravvivenza della Rivoluzione cubana, dopo l’uscita di scena dei suoi capi storici, dipenderà non soltanto, o forse non tanto, dai cubani, quanto invece dal contesto internazionale; dipenderà in particolare dall’affermazione o meno dell’ALBA, la alleanza di un gruppo di Stati progressisti e socialisti Centro americani che stanno, con estremo sacrificio e difficoltà, ma anche con successo, tentando di costruire una Comunità politica ed economica libera, autonoma e indipendente dagli Stati Uniti e che, per questo motivo sono violentemente osteggiati da questi ultimi.

Per la verità, a giudizio di chi scrive, l’esperienza dell’ALBA è una speranza non soltanto per l’America Latina, ma anche e soprattutto per la disillusa e depressa sinistra europea e italiana. Così come il tentativo di rinnovamento del Socialismo cubano va seguito col massimo di interesse e partecipazione: perché il suo successo sarebbe il primo in un Paese comunista, una inversione di tendenza e una iniezione di fiducia. Per questo ancora oggi c’è bisogno di stare con Cuba.

E poi, sentite!: se penso a chi c’è dall’altra parte, all’assenza di umanità del liberismo e al disastro verso il quale sta portando il mondo, al volto tetro di burocrati e banchieri egoisti e arroganti, divenuti arbitri della nostra vita, mi tengo stretta Cuba con tutti i suoi limiti ed errori!

Viva Cuba, viva Fidel, viva la Rivoluzione socialista!


 

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