di Leonardo Caponi

PERUGIA - Insieme all’iniziativa sulle questioni ravvicinate e concrete, occorre lanciare una grande controffensiva culturale e politica, riordinando i nostri temi, contro l’attacco ideologico e materiale del governo Monti e del grande capitale finanziario e (in gran parte) industriale di cui è espressione, che, anche in virtù della pressoché totale acquiescenza dei media, ha prodotto “senso comune” liberista e una diffusa rassegnazione, anche nel popolo.

Dunque, primo punto; la teoria secondo la quale la precarietà e la disoccupazione esistono in quanto sono provocate dal “blocco” degli occupati “garantiti” è una bugia semplicemente indegna! La disoccupazione è prodotta non dalla “rigidità del mercato del lavoro”, ma dal fatto che c’è una grave crisi economica in tutti i Paesi dell’occidente sviluppato e che l’Italia è nel pieno di una recessione economica. Parliamo di nazioni nelle quali non c’è aumento dei posti di lavoro se il Pil non raggiunge una cifra almeno (almeno!) vicina, al 3% l’anno; figurarsi nelle condizioni attuali! Se non si rilancia lo sviluppo si ripeterà la storia di questi ultimi dieci anni di bassa crescita: cioè non ci sarà aumento dell’occupazione o sarà in forma di occupazione precaria, mal pagata e mal trattata.

Punto secondo: la crisi non è stata provocata dall’inefficienza o dalla pesantezza di un “pubblico” incapace di stare al passo col dinamismo del “privato”. E’ vero l’esatto contrario!: la crisi è originata dal fallimento dell’economia privata e privatistica e l’erario dei vari Paesi si è dovuto svenare per trasferire ingenti risorse al soccorso del privato, al fine di impedire che crollasse l’intero sistema.
In conseguenza, il debito pubblico italiano è diventato più pericoloso non a causa del fatto che lo stato ha speso troppo per la generalità dei cittadini o che questi hanno “vissuto al di sopra delle proprie possibilità”, ma, essendo legato alle economie degli altri Paesi, per ripianare le perdite delle sciagurate politiche bancarie e ancor più sciagurate speculazioni finanziarie (oltre che per la “storica” evasione fiscale) che hanno portato, esse si, sull’orlo del baratro l’economia degli Stati “ricchi”.

Punto terzo, i tagli draconiani del governo, lo smantellamento dei diritti, il peggioramento delle condizioni di esistenza non sono una ricetta “amara, ma necessaria” e tanto meno una legge della natura, come il fulmine o la tempesta: sono scelte politiche, ingiuste e sbagliate (tra l’altro destinate a rimanere stabilmente nel tempo) che, in modo truffaldino, salvano i colpevoli e penalizzano le vittime e che, in una paradossale inversione dei termini, si propongono di utilizzare le cause stesse della crisi, come medicina per curarla. In quanto tali, cioè come scelte politiche, possono essere cambiate con altre scelte politiche, realistiche e possibili, all’insegna della giustizia sociale, della dignità umana e dello sviluppo dell’economia.

Ma tutto questo non basta. Ci vuole una risposta politica all’altezza della violenza dell’attacco che viene portato. Bisogna fare il Partito del lavoro!, o comunque lo si voglia chiamare. Un soggetto politico che riunisca le forze della sinistra in un patto vincolante di unità d’azione attorno ad un comune programma politico e di governo, ma che sia aperto e inclusivo verso tutti quanti. Un segnale di novità per, se la sinistra fosse una squadra di calcio, dare una “scossa all’ambiente”, invertire la nefasta tendenza alla divisione, mettere in campo una massa critica più consistente e più corrispondente alla gravosità del compito e alla durezza della lotta. Farebbe apparire la sinistra in una luce nuova, svincolata da pratiche di autoconservazione ed autopromozione, aperta e coinvolgente, ridestando quella credibilità e fiducia che anche essa deve riconquistare per dare forza ed efficacia alla sua battaglia politica e per cogliere le potenzialità di riscossa che la crisi le apre.
 

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