di Franco Calistri

PERUGIA - L'intervento del governo di modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è un atto gravissimo, ultimo, in ordine di tempo, di una lunga serie di provvedimenti adottati in questi ultimi quindici anni, tutti con l'obiettivo dichiarato di manomettere quanto conquistato dalle lotte dei lavoratori in termini di civiltà del lavoro.

E' una storia che viene da lontano ed inizia nel 1996 con il cosiddetto pacchetto Treu che da un lato introduce il lavoro interinale e dall'altro amplia le maglie del ricorso ai contratti a tempo determinato. Si apre così una prima crepa nella legislazione del lavoro dalla quale negli anni successivi sarebbe passato il fiume in piena della precarizzazione. Poi è la volta della legge 300, nota anche come legge Biagi, con la quale vengono create fantasiose forme di raporti di lavoro precari, per altro assai poco apprezzate dagli stessi datori di lavoro, ma, sopratutto con l'introduzione di istituti come l'arbitrato e la conciliazione, si sferra un colpo mortale alle fondamenta stesse del diritto del lavoro e alla contrattazione collettiva.

Il mercato del lavoro è, come noto, un mercato sui generis sia per il tipo di merce che tratta, il lavoro, sia perché a differenza di altri mercati è strutturalmente squilibrato tra domanda offerta, ovvero le due componenti che si incontrano in questo strano mercato, il lavoratore ed il datore di lavoro, non sono su di un piano di parità, in quanto, è del tutto evidente, il datore di lavoro ha una posizione di forza, il lavoratore di debolezza. Per riequilibrare, o tentare di eliminare gli aspetti più eclatanti di questa disparità di posizione, interviene la legislazione del lavoro, che pone dei limiti all'operare del datore di lavoro, e la contrattazione collettiva, che che non lascia solo il lavoratore nel mercato. L'introduzione dell'arbitrato e della conciliazione stravolgono le ragioni stesse del diritto del lavoro. Non è poi un caso che, immediatamente dopo, parta l'attacco alla contrattazione collettiva, la richiesta di abolizione del contratto del nazionale del lavoro. Restava l'articolo 18, ci ha pensato il governo Monti.

Ma c'è di più. L'intervento sull'articolo 18 con la cancellazione del reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici, rischia inoltre di creare una intera fascia generazionale di disoccupati. Questi professori chiamati a governare l'Italia forse non hanno consapevolezza che non sono più all'università dove hanno a che fare con “simulazioni della realtà”, i provvedimenti che prendono vanno ad incidere sulla vita delle persone in carne ed ossa, non ipotetici lavoratori o consumatori o cittadini. Ecco quindi che l'intervento sull'articolo 18 va letto contestualmente agli altri provvedimenti presi in materia di allungamento dell'età pensionabile e di ammortizzatori sociali. E parliamo di persone in carne ed ossa. Un lavoratore che si avvicina ai 50 anni, che è passato 30 anni alla catena di montaggio, è, per riprendere un'espressione spesso usata dal segretario FIOM Landini, assai cruda ma efficace, “rotto”: trent'anni di catena di montaggio rompono nel fisico e nell'anima. Questi sono lavoratori a ridotta produttività che fino ad ieri non potevano essere licenziati, oggi. E un lavoratore con queste caratteristiche una volta perso il lavoro chi lo riassumerà mai? Ha diritto all'indennizzo pari ad un massimo di 27 mensilità e poi a 12 mesi del nuovo sussidio di disoccupazione, 800 euro mensili. E finiti 12 mesi? Non può andare in pensione perché non ha ancora l'età. E allora?

Per questo quest'ultimo intervento del governo va combattuto con grande ed estrema determinazione ed è necessario impegnarsi per costruire un fronte di lotta vasto ed ampio che sappia coinvolgere anche quei settori del Partito Democratico che per la loro storia non possono ingoiare in nome della stabilità o dello spread questa vera e propria nefandezza.
 

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