di Gian Filippo Della Croce

La segretaria generale della CGIL Susanna Camusso ha commentato così la “storica” sentenza di Torino in merito al tragico avvenimento all’interno dello stabilimento Thyssen Krupp : “ ……….se non si interviene e si è coscienti dei rischi c’è un effettivo dolo. Non ci potrà mai essere una questione materiale della vita delle persone….” . Ecco, al di là delle diverse e contrastanti prese di posizione su una sentenza storica in materia di giurisprudenza del lavoro, che illumina finalmente alcune zone d’ombra in merito all’attribuzione delle responsabilità, le parole di Susanna Camusso devono farci riflettere soprattutto su una cosa, cioè che “non ci potrà mai essere una questione materiale della vita delle persone…”.

Il significato è ben chiaro, la vita è un valore al di sopra di tutti gli altri valori, e come tale va considerata, non possono esistere quindi situazioni nelle quali questo principio viene a mancare. In un passato recente le morti sul lavoro, che purtroppo continuano anche in questi giorni, sono state catalogate come “incidenti” la cui attribuzione in fatto di responsabilità è stata sempre controversa.

“E’ successo, però poteva stare più attento…” è il commento con cui di solito si accompagna la morte di un operaio, identificando in lui, la vittima, il principale responsabile della sua sicurezza. Certo, il lavoratore è il primo responsabile della sua sicurezza, lo sanno tutti, e perciò deve ottemperare a tutte quelle norme che gli consentono di proteggersi meglio nel fare il proprio lavoro, ma sappiamo anche tutti che questo molto spesso non basta. Non basta perché le variabili indipendenti del rapporto lavoro-sicurezza sono così tante e così insidiose che possono anche sfuggire al più qualificato esperto di sicurezza sul lavoro.

Ma proprio per questo, è necessaria una “santa alleanza” fra lavoratori, datori e manager per affrontare il problema, un “problema” che causa ogni anno centinaia di morti e migliaia di invalidi mettendo quotidianamente in discussione proprio le parole di Susanna Camusso “ non ci potrà mai essere una questione materiale della vita delle persone….”.

Il valore della vita di una persona è incommensurabile, eppure in casi come questi, cioè attinenti alle morti e agli infortuni sul lavoro si ricorre alla “materializzazione”, cioè alla quantificazione in denaro del valore di una vita, certo lo si fa in nome dei famigliari che hanno perso il loro sostegno ma è comunque un fatto intollerabile, eppure lo viviamo quasi ogni giorno, nelle aule dei tribunali del nostro Paese. Un Paese che stando alle statistiche è fra quelli che nella Unione Europea riscontrano un elevato numero di incidenti sul lavoro, spesso mortali. Si parla si “santa alleanza” per limitare la piaga degli infortuni, una alleanza che la Legge 626, emanata dal Consiglio Europeo, descrive chiaramente nei termini e nei mezzi da utilizzare, una legge che però ha incontrato sempre ostacoli ad una sua piena applicazione.

Molte le ragioni, alcune oggettivamente fondate, ma è chiaro che se crediamo alle parole della segretaria della CGIL, ( e come si potrebbe metterle in discussione?) l’urgenza di una “alleanza” sulla sicurezza nei luoghi di lavoro fra gli attori della produzione è urgente e necessaria e la base di partenza potrebbe essere proprio la bistrattata Legge 626. Dall’aula del tribunale di Torino è dunque uscita una sentenza ( che va comunque rispettata) e che suona come un monito diretto a risvegliare le nostre coscienze distratte dalla competizione globale, esaltate dal sapore del successo ad ogni costo, attratte dal sapore dolce del denaro, il vero valore delle nostre esistenze, l’unico valore assoluto che ci viene offerto dalla società cosiddetta “moderna”, un valore pagano che richiede sacrifici altrettanto pagani come quello della vita stessa.

Potremmo ancora prolungarci su considerazioni come queste che ci troviamo purtroppo a fare davanti alla tragica morte di sette lavoratori e alle considerazioni che hanno indotto i giudici a pronunciare quella sentenza che fa indignare una potente multinazionale,che dovrebbe invece misurare le sue reazioni come richiederebbe il suo ruolo, al quale in questo momento guarda il mondo dell’impresa e del lavoro, invece la Thyssen Krupp si sta comportando come un qualsiasi palazzinaro, perché? Perché si arriva a contestare con inusitata durezza una sentenza che ha cercato di fare giustizia? Forse perché in questi terribili tempi che viviamo, ci siamo dimenticati di cosa significhi fare giustizia , che non è soltanto un fatto individuale, che cioè attiene soltanto alle parti in causa, ma che è un fatto collettivo che appartiene alla società, la quale deve trarne insegnamento. Ma mai come oggi il livello di coscienza collettiva nei confronti della giustizia e del fare giustizia è stato così basso, e questo vale anche per gli atteggiamenti della multinazionale che adombra sospetti di persecuzione e oscure conseguenze per il futuro della sua permanenza in Italia.

Ci auguriamo che i vertici della stessa multinazionale riconsiderino il loro atteggiamento alla luce di una responsabilità che il loro ruolo impone, una responsabilità che impone al dirigente, al manager, di distinguersi anche per la sua capacità di giudizio, di scelta, di lungimiranza, di coraggio. Quel coraggio che dovrebbe dimostrare il management della Thyssen Krupp nell’accettare una sentenza dalla quale trarre importanti insegnamenti per il futuro, sui quali riflettere e attrezzarsi per contribuire a creare un mondo del lavoro più sicuro.
 

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