Com’è l’età dell’angoscia? E, soprattutto, si può definire con contorni precisi un’epoca dell’ansia? La sfida lanciata dalla mostra aperta fino al 4 ottobre a Roma, ai Musei Capitolini (dal titolo «L’Età dell’Angoscia. Da Commodo a Diocleziano 180-305 d.C.») è interessante. Perché, attraverso busti, statue e ritratti, prova a raccontare quello che forse è stato il primo momento «documentabile» di crisi del mondo occidentale. Quando si passò da quello che gli storici definirono «Impero dell’oro» (cioè di Marco Aurelio) a quello del «ferro arrugginito». Ma perché? 

La mostra (a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce e Annalisa Lo Monaco) parte da un saggio del 1965 di Eric Dodds, dal titolo Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia in cui si parlava del senso di smarrimento scaturito dagli scricchiolii dell’Impero Romano. Allo stesso modo, nell’epoca analizzata dalla rassegna romana le testimonianze ci riportano un quadro di incertezza. Incertezza economica, sociale e religiosa. L’allontanamento dagli dei della tradizione e il rifugio nei culti orientali (da Cibele a Sabazio). E poi Cristo, la grande novità . Ad astrologi, indovini ed oracoli (come spiegano i curatori) gli uomini e le donne del tempo ripetevano le stesse domande: «mi ridurrò a mendicare?», «avrò il mio salario?» (un po’ quello che sentiamo ripetere oggi nelle cronache dei talk show televisivi).

Si trattava di un’ansia composita, nata dalle guerre civili e militari, dalle carestie e dalla fortissima pressione dei Barbari ai confini. «In poco meno di centocinquanta anni infatti — sottolineano i curatori — l’Impero cambiò la propria fisionomia, arrivando all’instaurazione della Tetrarchia e alla perdita del ruolo di capitale della città di Roma. In questo lasso di tempo le cronache evidenziano alcuni elementi che ancora una volta richiamano, seppur con le dovute differenze, la nostra attualità, quali: l’aumento delle pressione di popoli sui confini dell’impero, le spinte secessioniste (si pensi all’Impero delle Gallie e al Regno di Palmira), i disordini interni (che comportarono riforme strutturali della tradizionale unità militare romana, la legione), la crisi del tradizionale sistema economico».

Ecco allora come si racconta un’epoca di angoscia: con opere come il «busto di Commodo come Ercole» (elevato al rango di semidio); come il «ritratto colossale di Probo» o il «busto di Decio» dei Musei Capitolini; con la «statua bronzea di Treboniano Gallo» del Metropolitan Museum of Art di New York. 

Gaio Vibio Treboniano Gallo (latino: Gaius Vibius Trebonianus Gallus; Perugia, 206 - Terni, agosto 253) fu imperatore romano dal 251 al 253 insieme al figlio Volusiano, che associò al trono ed al figlio di Decio, Ostiliano. Il suo regno fu caratterizzato da una lunga serie di disastri, come la peste che colpì l'Impero romano per anni, le incursioni delle popolazioni barbare oltre i confini dell'impero e la perdita (secondo alcune fonti avvenuta durante il suo regno) della Siria in favore dei Sasanidi ed il saccheggio di Antiochia. Uomo di indubbie qualità amministrative e militari, il suo programma fu impresso nella dicitura delle monete che fece battere: Pax aeterna.

E ancora: il prestito di tre statue maschili a figura intera, dal Seicento ospitate nel Casino del Bel Respiro della Villa Doria Pamphilj a Roma ( «Statua di togato», «Statua di cacciatore» e «Statua in nudità»). Ci sono i ritratti, dove gli imperatori vengono presentati in corpi idealizzati o che ricordano dei e dee. Semidei come Ercole o Dioniso furono particolarmente apprezzati perché erano metafore. Metafore di mortali divenuti dei grazie alle qualità straordinarie delle imprese. 

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