Estratto da "Assalto al cielo. La classe operaia va sui tetti"
Fabbriche che tagliano gli organici e aziende che chiudono. Proprio da quest'agghiacciante e triste realtà nasce Assalto al cielo. La classe operaia va sui tetti, di Michela Giachetta, Fandango. Gli uomini "senza futuro" protagonsti di questo libro diventano questi duecento milioni di uomini nel mondo rovinati dalla crisi economica mentre in Italia, nello specifico, la disoccupazione sfiora ormai il 10% e spesso i 400mila lavoratori in cassa integrazione e quelli licenziati si ritrovano costretti persino a essere invisibili e senza voce. Questa è la drammatica realtà di un paese come il nostro, dove oggi gli operai, i ricercatori, dalle piazze salgono sui tetti per denunciare le loro pessime condizioni e si organizzano per restarci a lungo. La Giachetta per realizzare questo libro ha visitato aziende e istituti di ricerca (Ispra, Novaceta, Kss, Yamaha, Merloni...), incontrato lavoratori e lavoratrici che hanno raccontanto le loro dure esperienze. Spesso si tratta di storie che vedono come protagonisti persone di cinquant'anni e per i quali rimettersi "in gioco" non è uno scherzo di parole, ma una dura condizione di vita.
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Le camionette della polizia sono dappertutto. Agenti armati come se da un momento all’altro potesse scoppiare la guerra. Strade chiuse. Impossibile entrare anche col motorino. Ausiliari del traffico, con pettorina gialla addosso, fanno slalom fra auto immobili nella circolazione bloccata e appoggiano multe sui parabrezza di scooter lasciati sui marciapiedi e di macchine parcheggiate sulle strisce pedonali. Lontano si sente la sirena di un’ambulanza. Le metropolitane sono ferme, qualche autobus gira, ma occorre lasciare ogni speranza di sopravvivenza prima di salirci su. Un corteo attraversa Roma, bandiere rosse e gialle dei sindacati di base che hanno proclamato lo sciopero generale. In marcia alcuni precari con coloratissimi bersagli appesi ai giacconi, hanno addosso la scritta “Sotto tiro”, altri bollati con il cartello “pericoloso”, portano in mano scope. “Nessuna azienda deve essere chiusa. Nessun lavoratore licenziato”, è lo slogan che apre il corteo. Il sole sbatte sulle facce di ragazzi e ragazze in marcia, alcune signore si stringono nelle loro sciarpe, il freddo non ha ancora lasciato la città. Un tir addobbato di palloncini rossi si muove lento in mezzo alle persone. Sfilano finti infermieri e veri vigili del fuoco. Qualcuno intona Bella Ciao, ma il coro non parte. Spuntano tende blu da campeggio sollevate per aria. La città è bloccata, ma loro no, studenti e lavoratori, mamme con passeggini e uomini in tuta blu sono in marcia. Lenta, ma continua. Dalle finestre qualcuno si affaccia per guardare giù, verso la strada, quel fiume di persone. Io sul mio scooter, casco in testa e occhiali da sole, provo a spiegare ai vigili che devo attraversare proprio quella strada.
Provo a convincerli a farmi passare, anche col motorino spento. Allargano le braccia. Devo desistere. Parcheggio lo scooter e percorro il corteo a ritroso. Piazza Navona, il Senato, corso Vittorio Emanuele, chiusa in parte. In fondo alla strada Palazzo Grazioli, casa Berlusconi. Sotto quelle finestre la manifestazione non ha il permesso di passare. Devio sulla parallela, risalgo la corrente, arrivo a piazza Venezia. Dietro ai poliziotti, un tetto di plastica, portato a braccia alzate. “Non sparatealla ricerca” è lo striscione di accompagnamento. La stessa scritta è sulle magliette nere di molti ragazzi. Sono i ricercatori dell’Ispra, istituto per la ricerca ambientale. Per farsi sentire hanno deciso di essere presenti a tutte le manifestazioni. Il tetto che sfila in corteo è il simbolo della loro lotta contro i tagli. In cima al loro istituto, a Casalotti, nella periferia di Roma nord, sono saliti per protesta nel novembre del 2009. Sono rimasti lì 59 giorni. Quel simbolo hanno deciso di farlo viaggiare, dalla periferia al centro della città. Per ricordare a tutti che sono ancora in difficoltà, che dopo un anno e mezzo le promesse fatte non sono state mantenute. Che ora sono tutti giù per terra, ma la lotta si può continuare anche dal basso. Sul tetto mi accompagna Ivan: felpa blu, ai piedi scarpe da tennis, addosso una certa riservatezza che in un primo momento scambio per diffidenza. È alto, decisamente più di me, ha 41 anni, qualche ruga attorno agli occhi e un sorriso carico di rabbia che prova – invano – a nascondere.
Il tetto non mi era sembrato così ampio vedendolo dai giornali e dalle tv. Poche case intorno, molto verde. È passato più di un anno da quando sono scesi, ma arrotolato per terra c’è ancora un vecchio striscione. Ivan è stato uno dei primi quattro ragazzi a conquistare la cima dell’istituto. Me lo dice solo alla fine della nostra chiacchierata. Prima si trincera dietro il “noi”, la “nostra” battaglia, la “nostra” salita. Mi racconta di quei giorni. Della scelta di dare l’assalto al cielo, “figlia di una valutazione combattuta perché non sapevamo cosa ci aspettasse”. Racconta i problemi e la sorpresa di vedere la complicità fra i colleghi. E mi parla del suo presente, del disagio lavorativo, che non è solo una questione economica. “Mi sento come un militare senza divisa. E visto che non ho la divisa non ho la stessa dignità di chi invece la indossa, il mio paese mi vede come un peso e non come una risorsa”. Mi vengono in mente i titoli di alcuni giornali, di alcuni tg, le frasi di alcuni politici: “Ricercatori sovversivi”, “I bravi ragazzi stanno in casa a studiare, non scendono in piazza.” “Lo Stato investe sulla ricerca.” Mi vengono in mente tutti insieme, un unico flash, mentre da quassù ascolto Ivan: “È un problema di vergogna statale se un ente pubblico fa lavorare nello stesso posto allo stesso progetto persone con stipendi diversi”. Parla di Stato, di diritti, di collettività. Non è il lato economico che gli pesa. Anche se non ha potuto comprare a rate nemmeno un set di pentole vendute in televisione, gli hanno detto che con il suo assegno di ricerca non potevano concedergli il finanziamento.
“Io parlo di Stato perché la situazione che c’è qui dentro è diffusa, noi siamo anche fortunati per la visibilità che abbiamo avuto, fuori ci sono realtà che esistono ma di cui nessuno parla.” Penso agli operai nella provincia di Torino, di Milano, ai lavoratori della Merloni. Esiste solo ciò che finisce in televisione. Tutto il resto è noia, tutto il resto semplicemente non esiste. Sono riusciti a unire due mondi distanti anni luce, quello della fabbrica e quello della ricerca. Uniti nella mancanza di considerazione, uniti perché non riescono a coniugare al futuro nessun verbo. Uniti perché sembra che non contino più nulla, chi costruisce frigoriferi e volanti di auto e chi fa ricerca per migliorare il nostro presente e il nostro domani, per rendere le città meno puzzolenti e il mare più pulito. Ivan è biologo, studia il mare, il fondo del mare. Uno degli ultimi progetti di cui si è occupato riguardava Lampedusa, il canale di Sicilia, zona talmente devastata che si è arrivati all’emergenza per alcune specie naturalistiche, come i coralli. Il progetto doveva durare due anni, ma dopo 18 mesi è stato bloccato, il governo ha congelato i fondi. Oggi chiede solo di poter essere messo in condizione di poter far bene il suo lavoro, se non ci sono soldi, non si riesce a fare ricerca. “Poi è giusto che il lavoro del ricercatore sia monitorato attraverso le pubblicazioni. Nessuno chiede di rimanere qui a fare lo scienziato pazzo, io vorrei ci fosse un controllo, ma tu Stato mi devi permettere di svolgere al meglio la mia attività.”
Massimiliano Dottaro, 36 anni, è andato, tornato, riandato. In un viaggio continuo. Ci sentiamo più volte per telefono, prima di incontrarci a Casalotti. Arriva dalla Toscana, treno, pullman, autobus, niente auto, non se la può permettere. Ha una figlia piccola, che vive là. Si divide fra Roma e la Toscana. Ma viene dalla Liguria, è genovese. Non ha perso il suo accento. Nella Capitale vive da solo, 500 euro di affitto, le spese per la figlia, un assegno di ricerca da 1200 euro al mese. Lo incontro nel suo ufficio, che è quello di Ivan e Umberto. Alto, occhi scuri, capelli neri, si siede davanti a me e mi racconta scorci di vita. Massimiliano studia i pesci cartilaginei, squali, razze, l’Unione europea si sta muovendo per tutelarli e all’Ispra ci sono solo due lavoratori che se ne occupano. “Siamo carne da macello.” Come tutti, si barcamena fra il lavoro e la vita privata. I suoi dieci anni all’Ispra non sono stati continuativi. Finiva un assegno di ricerca e rimaneva in attesa del rinnovo. Ma c’era comunque l’affitto da pagare e una figlia a cui pensare. Allora si è inventato di tutto. Quando era ancora a Genova, è andato a bussare ai negozi di abbigliamento. Laurea in tasca, ben nascosta, curriculum in mano e disperazione in faccia. Ha fatto il commesso in una grossa catena di vestiti e il rappresentante di cosmetici. Il cercare altro ha avuto anche un forte impatto sulla carriera. “Dovevo pensare a guadagnarmi da mangiare, non potevo fare pubblicazioni e rimanere in attesa mentre decidevano della mia vita. Questo è un lavoro intellettuale, se scrivi devi avere la tranquillità per farlo.
”Ma senza i soldi per pagare l’affitto, la tranquillità se ne va altrove. Si è dato a quella che chiama finanza creativa. La compagna è precaria, i soldi sono pochi. “Io vivo come Paolino Paperino, sfuggo ai creditori.” Ride, ma è un sorriso amaro. Massimiliano è stato uno dei promotori della protesta. Assieme agli altri colleghi ha cercato di accendere i riflettori su un problema che non è solo economico. Lo ribadisce anche lui. Perché, dice, stiamo ritornando indietro, un salto nel passato. “Siamo come negli anni Sessanta, se nascevi da una famiglia sfigata dovevi fare un lavoro sfigato. Questo lavoro, il mio lavoro, diventa un lavoro elitario.” Massimiliano ha mandato curricula anche all’estero. È pronto a partire, lui e tutta la sua famiglia. Via da un Paese che non ti mette nelle condizioni di fare il tuo lavoro, che ti impedisce di crescere. Che non ti dà, non riesce a darti, alcuna sicurezza per il futuro. Massimiliano, Ivan, Umberto, Monica e tanti altri hanno scelto di fare i ricercatori per passione, non certo perché speravano di diventare ricchi. “Ma con l’avvicinarsi dei 40 anni ti fai delle domande, ti chiedi qual è il confine fra passione e pazzia. Io non lo so qual è, ancora non lo so. E tu?”
(...) Stefano non cerca le parole, me le getta addosso conorgoglio e con rabbia. Io quella rabbia la conosco. Non se ne va nemmeno quando vinci una battaglia. La voce si scalda, come il motore di un’auto appena accesa. “Noi avevamo il potere politico contro, il padrone contro.” “Durante un incontro in Provincia un politico con un ruolo importante ci ha chiesto: Che cazzo volete da me? Come che cazzo vogliamo da te? Ed era anche sotto elezioni.” “Fuori firmano sulle chiusure delle aziende accordi che fan paura, loro non vivono più la fabbrica. Ti dicono: piuttosto che la chiusura è meglio fare un po’ di cassa integrazione. Ma io con 700 euro al mese che ci faccio?” “In un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo tu vai a smantellare delle fabbriche? Tu sei fuori di testa: ce n’è una miriade di fabbriche chiuse, perché in questi anni la politica del sindacato è stata questa.”
Basta mettere il naso fuori da lì, per contare quante sono le aziende chiuse nella zona di Lambrate. La crisi economica da queste parti ha l’aspetto di capannoni scheletrici, come quello dell’ex Maserati, lì a due passi, il rumore di sigilli messi alle fabbriche, il silenzio di un lavoro che non c’è più. Quando Stefano e Roberto raccontano la storia dell’azienda, ci sono parole che rimbombano nella stanza. Nessuno sembra accorgersene, i lavoratori alle macchine continuano a fare quello che stavano facendo. Eppure parole Eppure parole come “padrone”, “interesse dell’operaio”, “gruppo” sono ripetute talmente tante volte che è impossibile far finta di niente. La voce di Stefano e Roberto non cede mai, il tono non si addolcisce nemmeno quando lasciano trapelare la fatica della loro lotta, le mani si muovono mentre parlano, gli occhi non si abbassano un secondo. I duri e puri della Fiom, li ha definiti qualcuno. Quelli della Fiat, certo, ma anche quelli dell’Innse. Padrone da una parte, operaio dall’altra. Due mondi che da queste parti non si sorrideranno mai. Nel mondo degli operai ci sono diritti che non si chiedono, si pretendono, con le buone o con le cattive: “Noi abbiamo tenuto il capo del personale dentro il suo ufficio, perché non arrivava lo stipendio, pensava che scherzassimo. Noi non scherzavamo: io sto qua giorno e notte, ma tu stai qua giorno e notte con me finché non ci paghi. Tu a quel punto devi fargli vedere che sei più cattivo di loro”. Ci sono diritti che non hanno prezzo: “Io non sono in vendita. Come operaio il mio unico interesse è di non fare chiudere le fabbriche. Se tu accetti 20.000 euro per andartene, è come se accettassi di far chiudere le fabbriche e dai un prezzo al tuo lavoro. Ma il mio lavoro mette in moto l’uscire da casa, il rendermi utile per la famiglia, mi garantisce un futuro. E il mio futuro vale più di 20.000 euro”. Le parole diventano più dure, la voce si adegua: “I politici, i sindacalisti parlano tanto di democrazia, la fantomatica democrazia… La democrazia non esiste, se io non mi scontro con quelli là e non uso il pugno duro come lo usano con me, io con la democrazia sai cosa faccio? Vado a casa, con la testa bassa. Che la democrazia se la tenessero loro”. (...)
Assalto al cielo. La classe operaia va sui tetti
Michela Giachetta
Fandango
collana Documenti
prefazione di Francesco Piccolo
pagine 200
euro 14,00
Fonte: controlacrisi.org

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