Riteniamo utile pubblicare per i nostri lettori l’introduzione ad dibattito, a cura di Fabrizio Cerella, per la presentazione di “Nuova Panda schiavi in mano”, il libro del “Gruppo Lavoro” del Centro per la Riforma per lo Stato, diretto dal prof. Mario Tronti, avvenuta ieri sera alla Sala Santa Chiara in via Tornetta, a Perugia.


Il libro che presentiamo oggi si è rivelato un utilissimo strumento per capire le trasformazioni del mondo del lavoro nel punto più alto del conflitto di classe nel nostro paese. Le vicende del gruppo Fiat con il progetto Fabbrica Italia, che nel volume è affrontato dettagliatamente sotto i vari aspetti, rappresentano infatti il tentativo di parte della borghesia italiana (il borghese buono Marchionne, ampiamente spalleggiato dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia) di portare un colpo decisivo al mondo del lavoro, per garantire, come giustamente sottolineano gli autori, che le sfide di competitività dentro il mercato globalizzato non vadano a ledere le rendite e i profitti, vere e proprie nuove variabili indipendenti del ciclo economico.
Il progetto di Marchionne è quello di sconvolgere le relazioni industriali, cancellare la contrattazione collettiva nazionale, limitare il diritto di sciopero e la presenza delle rappresentanze sindacali in fabbrica, aumentare i tempi e i ritmi di lavoro per abbassare il più possibile il costo del lavoro, avere docili e collaborative maestranze per appropriarsi del sapere operaio all’interno del processo di miglioramento continuo previsto dal nuovo progetto di qualità (World class manufacturing), che ha preso il posto della fabbrica integrata e della produzione snella degli anni novanta.
Dietro a questa proposta non c’è più soltanto la favoletta del primato del mercato capace di autoregolarsi e di allocare nel miglior modo possibile le risorse nella società, un’idea che è ancora ben presente nel management, ma anche in gran parte della classe politica e dei tecnocrati, e che non è stata sufficientemente scalfita dagli effetti nefasti della crisi economica e finanziaria mondiale. Adesso, l’ideologia che va per la maggiore è quella che per competere a livello globale in un contesto di crisi per l’occidente, ma anche di espansione per i nuovi paesi emergenti asiatici e dell’America latina, occorra trovare forti convergenze tra capitale e lavoro. E non è solo la proposta del capitalismo territoriale leghista, per la quale gli interessi della fabbrichetta sono gli stessi per operai e padroni, perché è praticamente condivisa da tutto l’arco parlamentare, bastione del pensiero riformista del Pd veltroniano (ma in parte anche bersaniano) e punto di forza del sindacalismo neocorporativo della Uil e della Cisl.
Merito di questo libro è quello di svelare la falsa coscienza della proposta di Marchionne (fabbrica Italia), di metterne in luce i forti connotati di classe, e di raccontare la lotta degli operai di Pomigliano, che hanno dovuto contrapporsi al reindottrinamento “partecipativo” imposta dalla Fiat e al referendum che calpestava i diritti minimi dei lavoratori nello stabilimento campano. La stessa lotta che poi hanno condotto gli operai di Mirafiori e che alla Ex Bertone si è dovuta confrontare con l’ennesimo pesante ricatto: o accetti i diktat della proprietà (più lavoro, meno pause, ritmi più intensi, niente contestazioni o scioperi) o perdi il lavoro. Lavoro in cambio dei diritti. Questo è ciò che vogliono gli industriali oggi, portando a compimento un processo trentennale di arretramento che ha toccato i salari (aumento della forbice, eliminazione della scala mobile), le pensioni (passaggio al modello contributivo e aumento età pensionabile), il welfare, l’occupazione con la generalizzazione della precarietà e della flessibilità.
Ma per uscire dalla crisi è necessario accettare un’ulteriore compressione dei diritti dei lavoratori ed entrare tutti nella precarietà? Ovviamente la nostra risposta è no, come lo è stata quella degli operai di Pomigliano e di Mirafiori. Ed è stato un NO importante, che ha riscoperto il conflitto di classe, anche se di pura resistenza, come ultimo baluardo dei diritti minimi, non più comprimibili (contratto nazionale, diritto di sciopero, tempi e ritmi non devastanti). Ma come sottolineano gli autori del libro è stato anche un NO che ha evidenziato la solitudine politica del lavoro. Un problema grande, che non può essere risolto dalla pur importante generosità della Fiom, che con la manifestazione del 16 ottobre si è sostituita alla politica.
È evidente come il mondo del lavoro (ma anche quello del non lavoro e dei precari) abbiano necessità di vedere rappresentate politicamente le proprie istanze, perché le conquiste dei lavoratori sono oggi più che mai conquiste per la parte maggioritaria della società. Il problema è che non c’è in parlamento una forza politica che metta al centro del suo programma il lavoro, i lavoratori, il welfare, la lotta alla precarietà e la critica al neoliberismo. La fuoriuscita delle forze comuniste dal parlamento ha avuto forti ripercussioni sul sociale e sui rapporti di forza in campo nella società. Certo la situazione è pesantemente condizionata dall’anomalia del berlusconismo, per cui anche un semplice vagito contro Berlusconi viene scambiato per un progetto di sinistra.
Ma se è vero che la politica si deve interrogare a partire dalla lotta dei lavoratori metalmeccanici, degli studenti contro la Gelmini, dei precari contro la sottrazione del loro futuro, dei tanti che sciopereranno domani con la Cgil, e si deve porre il problema di dare rappresentanza a quelle istanze, è anche vero che non esistono scorciatoie politiciste.
Il quadro politico si è spostato fortemente a destra, il Pd mantiene il suo progetto riformista, che altro non è che la ricetta del neoliberismo temperato, nonostante la batosta della crisi e il sindacato non può lanciasi nella costruzione di un’improbabile sinistra di governo, che piega le aspettative, le speranze e le lotte dei ceti subalterni all’idea che solo lo sbocco di governo consentirà una pratica di trasformazione. Il rischio è quello di aumentare disillusione e allontanamento dalla politica. Non ho ovviamente ricette da proporre, e anche il libro non le offre ai suoi lettori. Credo però che i tanti che si dicono oggi comunisti in Italia, dispersi in troppe formazioni politiche, non siano un residuo di un passato novecentesco. Il ritorno del conflitto di classe, e il tentativo di imporre un neofordismo nei più grandi stabilimenti del nostro paese, ci dicono che il 900 non è affatto chiuso. Attorno alle istanze del lavoro si può costruire un campo della sinistra che parta dalla mobilitazione unitaria dei movimenti sociali, delle forze sindacali di classe, dei comunisti e della sinistra antiliberista, con dei contenuti chiari e radicali: lotta alla precarietà, redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori, equità fiscale, tutela dei beni comuni, ricostruzione di un vero welfare, così come si era fatto nella stagione di Genova. Allora si era vinta la scommessa di una mobilitazione unitaria, in cui le diversità venivano riconosciute come ricchezza, e in cui la competizione lasciava spazio alla collaborazione per il comune obiettivo di critica al neoliberismo. Credo che oggi si possa fare lo stesso con le istanze del lavoro e del mondo della precarietà. Quello che manca, forse, è una reale volontà.

Fabrizio Cerella, portavoce segreteria regionale Prc Umbria
 

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