Recensione del libro RESPIRO, Poesie di M. Velia Lorenzi

 

di Maria Pellegrini

 

Il mondo poetico di Maria Velia Lorenzi si presenta in apparenza immediatamente palpabile, ma una lettura attenta della sua recente raccolta di poesie, RESPIRO (editore Carmignani, pp. 80, €10,00), permette di coglierne molteplici sfumature e intravedere, a tratti, lampi vivaci, ricordi di giorni di luce rimasti solo nostalgia e vano desiderio di un impossibile ritorno: «Non torna indietro / il tempo, / niente da fare ormai». La natura empatica della sua poesia lascia trasparire malinconia, inquietudine dietro la descrizione di certi luoghi: «Freddi il cielo ed il mare / pure d’agosto. / Avanzò poi il crepuscolo / coprendo / le cose d’ombra / avara di tepore». Ma sentiamo aleggiare anche la speranza quando l’aurora, «l’ora dell’oro» annuncia il giorno che si rinnova «c’è chi non lo vede, / corre forte, / grida, piange e poi ride / deride, gioca, affanna / … Eppure non esiste giorno che non risorga / anche se il cielo / è coperto di nubi. / Sopra il nero, /c’è sempre azzurro».

I versi brevi, senza rima, si susseguono rapidi con un linguaggio lirico e descrittivo: paesaggi reali si trasformano in paesaggi dell’anima con tutti i pensieri che pesano sul cuore: «Laggiù in fondo / fra l’edera, / c’è una fonte che sgorga / acqua leggera. / Là in fondo / c’è una fronda di passato / che mi attira frusciando / verso lo scroscio vivo / che lava il cuore».

Quando Lorenzi interroga se stessa e si domanda: «Chi sono?» La risposta denota turbamento, si sente forte e inattaccabile ma non insensibile come un sasso quando il vento della vita la sfiora: «Non sono fronda / che si piega al vento, / ma neanche sasso / fermo al maestrale».  È in sintonia con il mare «che senza fine / mormora un pensiero / alla bonaccia / finché irato, / ulula ed urla / al sibilo del vento» per poi «tornare quieto», «senza mai sapere / quando avrà pace / e quando avrà bufera». In altri versi, quando osserva l’infrangersi continuo del mare contro uno scoglio lo paragona all’inquietudine umana.

Le poesie di Lorenzi sono esili versi che si snodano lungo la pagina in un viaggio che attraversa atmosfere rappresentate con misurata grazia, come la descrizione di un «pallido il cielo / pallida la luna / nel mattino confuso / di fine inverno», o la descrizione del volo di un airone con felici pennellate: «Si libra in cielo / verso un’alba fredda / senza fatica / e sfida l’aria / dipingendo un quadro / che poi svanisce». Le parole sono al servizio della descrizione della natura nei suoi cicli stagionali, i rami spogli e fermi degli alberi che dormono quieti in una giornata invernale, o quando in autunno «si spande l’aria / carica e stupita dei suoi colori e del profumo intenso», mentre «si ribella il tempo / all’invadenza / di un precoce inverno».

Si avverte in tutta la silloge l’impercettibile fluire della vita attraversata anche dalla felicità nel quotidiano brulicare di uomini e donne che hanno consapevolezza della umana transitorietà. «Lirici quadri di vita: vissuta, sognata, talora agognata» scrive Ilario Luperini nell’Introduzione a questa raccolta di poesie nelle quali egli scorge una «pacata dolcezza» e, da critico attento ed esperto, «una continua attenzione alla sonorità della parola, alla composizione dei versi, ai ritmi e alle cadenze».

 

Ci sono versi che esprimono profondi pensieri esistenziali con riflessioni sull’angoscia del vivere quando affacciandosi al mondo «sei stordito da ciò che ti riserva l’esser nato» e«le favole felici, / bussano spesso invano». Solo un bambino «che non deve / fare i conti / col buio delle coscienze» può essere sereno ma in agguato c’è quel mondo «che i grandi hanno mutato / su misura del loro tornaconto». Eppure come scrive L’Autrice nell’esergo: «Se respirare è uguale a vivere, non è vero che la vita è male. Se il respiro è nei fiori, nelle foglie verdi, nei nidi, in ogni cosa che trasuda bellezza, la vita è bella. Eppure… è chi calpesta e abbatte ogni cosa nel suo cammino che la rende amara. Perché un nido è fragile, come i fiori, come tutto ciò che è respiro. Fragile davanti alla violenza, eppure tanto forte da possedere il segreto della vita».

Tra tante espressioni emotive notiamo che Lorenzi non cede alla tentazione di immortalare l’amore, da sempre presente nella poesia femminile, ma accenna piuttosto, con delicatezza e rimpianto, a momenti importanti della sua giovinezza, alla felicità talvolta sfiorata come un volo di farfalla posta sul suo polso e poi fuggita.

L’acuta sensibilità dell’Autrice è testimoniata anche dai sui romanzi, racconti, articoli, e dal suo lavoro all’interno dell’Associazione «L’Alba», che si occupa di integrazione psico-sociale delle persone che soffrono o hanno sofferto di un disagio psichico o psicologico. Qui conduce da quasi vent’anni (con una momentanea e da lei sofferta interruzione per il Covid) un laboratorio «Esprimersi scrivendo» per far luce nell’intimo di chi vive nel buio del disagio psichico paragonabile a un muro invalicabile. Tuttavia sono proprio i suoi versi a suscitare suggestioni, emozioni perché «La poesia sa volare dritta nell’intimo di chi l’ascolta» afferma Lorenzi, e la sua voce poetica, lontana da compiacimenti retorici, raggiunge esiti felici ed originali che arrivano al cuore e lasciano un retrogusto agrodolce quando il pensiero va agli anni della giovinezza.  Davanti all’azzurro del mare i riflessi del sole sono «diamanti lucenti» che come per magia lasciano percepire il calore di un abbraccio, ma torna subito la dura realtà: «È ondivaga la vita. / Oggi ti abbraccia, / dopo ti respinge. Addio sogni da vivere».

Nella seconda parte del volume troviamo una sezione dedicata alla poesia in vernacolo pisano alla quale Lorenzi per dieci anni si è dedicata pubblicando tre raccolte (1984, 1986 e 1991) nonostante - come lei confessa -  la difficoltà di «camminare in un mondo dove una donna riesce a muoversi con fatica soprattutto se non rinuncia a sostenere il suo modo di esprimersi». Ora sente che la sua vena «si è asciutta». Ma non rinnega l’importanza dell’uso del vernacolo, l’idioma del volgo che «offre un’opportunità impagabile per descrivere sentimenti forti…con il suo modo scanzonato e ironico di esprimersi».  Chi conosce questo genere di poesia sa che il vernacolo è la lingua parlata usata dal popolo limitata a una precisa zona geografica. Il recupero generoso di quel linguaggio, che ha le sue radici nel mondo contadino soffocato poi dai linguaggi dei media e da una società in continua trasformazione, costituisce una ricchezza culturale del nostro paese, uno straordinario mezzo per comunicare sentimenti e concetti, adoperando una lingua che essendo di pochi è più   genuina. Grande poeta - e Maria Velia Lorenzi lo è -  chi si rende interprete dei sentimenti del popolo esprimendo moti dell’animo e passioni con la schiettezza della parlata della propria terra. La materia poetica nasce da epifanie quotidiane, drammatiche e sofferte ma alleggerite dall’ironia «quasi mettere le ali all’anima che soffre» aggiunge Lorenzi.  Il vernacolo pisano è uno dei più antichi della nostra Italia e abbastanza comprensibile; fu il poeta ottocentesco Renato Fucini a contribuire con i suoi numerosi sonetti al rifiorire di questo genere letterario.

Per chiudere con ottimismo la presentazione di un libro denso di emozioni, di stati d’animo, di ammirazione estatica di fronte all’eterna bellezza della natura, riportiamo un paio di esempi, citati solo in parte, di poesie della sezione dedicata al Vernacolo:

 

           SE VALE 

 

          «A vorte mi domando se poi vale

          nasce’ e apri’ ll’occhi  ‘n mezz’ a questo mondo.

          Ma bisogna accetta’ quer ch’è normale

          e, a ripensacci bene, ‘n fondo ‘n fondo,

          se mi chiedessan cosa rifarei,

          strizza strizza sparisce tutto ‘r male,

          e se dovessi di’, rinascerei».

 

In un'altra poesia, il volgere del tempo è accettato con  saggezza spontanea e popolare: nessuna nostalgia, tuttavia quel che è passato ha un valore di appartenenza e meritano rispetto gli avvenimenti accaduti, sono pur sempre il dono della vita:

 

ER FOGLIO DEL CALENDARIO

 

           «Cosa ci faccio ‘or mese già passato?

L’appallottolo e via, alla spazzatura,

‘un serve più, cosa gliè stato è stato.

Ma mi par di strizza’ ‘na creatura.

[…]

L’ho fra le mani cianciato e stretto,

ma l’allungo e lo stiro piatto piatto:

è giusta ‘he lo sotterri con rispetto…»

 

Nota

L’immagine di copertina è un acrilico della giovane artista Margherita Bellani

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