TODI – Cineforum Dono e Mistero mercoledì 5 aprile, alle ore 21, al Cinema Jacopone di Todi con la proiezione del film, ad ingresso gratuito, “SU RE”, con la presenza del regista Giovanni Columbu (nel cast Fiorenzo Mattu, Pietrina Menneas, Tonino Murgia, Antonio Forma, Luca Todde).

L'assunto del regista è dichiarato sin dalla prima, incespicante inquadratura: restituire fino alla radice lo scandalo dei Vangeli, il silenzioso clamore di una Storia troppo spesso volgarizzata dalla patina sacrale di un immaginario che si rifà all’iconografia dei santini

Per questo la macchina da presa di Columbu, immersa in quell'umanità sgraziata che fa da coro al processo e alla condanna di Cristo, resa instabile dalla percezione del vicino mistero della Resurrezione, preludio a un'imminente crollo delle certezze e dei valori consolidati, si getta alla conquista di brandelli di spazio da ricomporre in una visione puramente astratta, mentale. Come in una tavola di Memling, che, con intuito già cinematografico, affastellava i piani narrativi nella sincronia di un unico spazio leggibile come summa di momenti distinti, il microcosmo inscenato da Columbu smonta la linearità della Passione e, con uno sguardo al "Rashomon" di Kurosawa, rilegge in forma sinottica gli scritti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, edificando un mosaico di frammenti che si avvitano en abîme attorno al momento della crocifissione. Una scelta ascrivibile a un duplice movente: mettere in scena la faticosa ricerca di una verità asintotica ("che tutti conoscono, ma spesso sfugge") tramite un'incessante dialogo tra le fonti bibliche ed esplicitare la natura metafisica di una storia, che, ormai stabilmente sedimentata nella coscienza occidentale, non può che reiterarsi nella nostra memoria in forma episodica, con il montaggio disordinato dei sogni o degli incubi.

Nel duplice movimento che anima il progetto e indovina una pregevole sintesi tra l'ambizione a violare le norme accomodanti di un cinema plastificato e la necessità di aderire al rigore del testo evangelico, si esplicita il nucleo della ricerca di Columbu. In "Su Re" l'esegesi biblica si congiunge alle ragioni del cinema, al punto che è nel rispetto delle Scritture che lo stile dell'opera ritrova i suoi moventi. Ed ecco che se, in un passo dell'Esodo, Dio ammonisce Mosè per aver osato pregarlo di mostrare il Suo volto ("Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere"), Columbu assume il precetto in forma cinematografica, fino a coprire gli occhi dello spettatore nei momenti in cui si svela il divino. Per questo nell'Ultima Cena (già di per sé visione assonnata degli apostoli, sogno ad occhi aperti consumato all'ombra degli ulivi) il volto di Gesù sfugge alla macchina da presa e l'occhio del regista fruga gli spazi vuoti tra i commensali: se Dio non può essere visto, è nel fuori campo che vanno ricercati i segni della sua presenza,nell’astrazione metominica di uno sguardo che sussume il dettaglio in simbolo. 

Il lavoro di sottrazione è radicale, fino al punto di spegnere le parole nei silenzi eloquenti di una natura commossa e straziata, nelle sonorità arcane di un dialetto masticato con violenza, che, da solo, allontana il sospetto di una messa in scena troppo edulcorata. Nel ritmo grezzo di quelle parole smozzicate, di quei versi sputati tra i denti risuona tutto il dolore di un martirio privato, cui è giustamente negata la spettacolarizzazione del grido, delle ferite essudanti, e che per questo vive di un'intensità più sincera.

In tutto ciò non è certo indifferente alla sensazione di brutalità l'ispida geografia della Barbagia, che incornicia la struggente imperfezione di fisionomie scavate e sofferenti nel digradare roccioso di un avvallamento che si inerpica fino a un orizzonte disperato di massi a picco.

Si è spesso citata, come modello del radicalismo stilistico ostentato da Cloumbu, l'esperienza di Ciprì e Maresco, ma è pur vero che da un simile confronto nessuno degli autori esce realmente arricchito. Il fatto è che il cinema di Columbu assomiglia solo a se stesso e, fatti i debiti tributi al dolente pauperismo del pasoliniano "Il vangelo secondo Matteo", non trova referenti diretti nella contemporaneità. Vi sono estranei il sarcasmo apocalittico di Cinico Tv e il regionalismo malinconico di Mereu, l'asprezza rigorosa, ma spesso irrisolta, di Maderna e la discontinuità stilistica del cinema di Salani. Sono influenze che galleggiano sull'opera senza mai lambirla e si attestano come semplice sostrato culturale.

Non diversamente operano le fonti pittoriche, certo rintracciabili nell'intrico di membra che affollano i singoli quadri, nell'austera ricerca di una nitida profondità di campo, nelle screpolature della pelle, negli occhi attoniti di un'umanità ferita, che umilia il bene e danza con la follia, ma senza che vi sia alcuna esigenza interna a sorreggere questa rete di citazioni, quasi fossero, anziché precise referenze, l'irrinunciabile sedimento di un inconscio collettivo.

E mentre Grunewald, seguendo Isaia ("Non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi"), presiede all'iconografia goffa e sgraziata dello splendido Gesù di Fiorenzo Mattu, Bruegel sorveglia con cura l'anacronismo che sovrappone alla Gerusalemme del I secolo il contesto locale dell'odierna Sardegna, arricchendo di vividi contrasti e silenziose ambiguità il mistero inscenato della Passione. Uno sfasamento di piani temporali che amplifica il senso degli eventi in forma archetipica e, al contempo, trasporta la più grande storia mai raccontata in un presente che è perenne contemporaneità di destino, accomunando gli uomini nel mistero di una dolente e sofferta eucarestia.

C'è di che esser grati a Columbu. La sua Passione fatta di silenzi e asperità, di volti terrigni e interrogativi sospesi, ineludibili, ci riporta nel cuore di un mistero profondamente umano come non avveniva dai tempi di Pasolini, lungo un filo che intreccia, con solida consapevolezza, forma e contenuto. Mentre le note solenni del Nunc Dimittis di Arvo Pärt sul finale non fanno che accrescere il nitore di questo toccante cerimoniale, che si spalanca, infine, alle soglie di una Resurrezione coerentemente suggerita, ma non mostrata. ( Matteo Pernini- Onda Cinema)

RECENSIONE

poi arriva come dal nulla un film italiano che dimostra che un altro cinema è possibile.
Un film che arriva da una parte dimenticata del paese. Dove non ci sono angosce sentimentali da liceali. Né famigliole alto-borghesi radical-chic alle prese con le crisi dei primi 40 anni. Dove non si parla il solito italiano omogeneizzato da trent’anni di pessima televisione. Un film che ignora olimpicamente tutte – TUTTE – le convenzioni del cosiddetto cinema “ben fatto” da regime duopolio-generalista che ha devastato immaginario e linguaggio. Un film che opera un violentissimo scavalcamento di campo come non se ne vedeva dai tempi di Ciprì & Maresco.

Su Re di Giovanni Columbu squarcia la banalità del cinema italiano, quello che si vede nelle sale e non solo e che si continua a fare come in un fermo immagine fuori dalla storia.
Una dichiarazione di discontinuità impressionante. Una sorta di supremo urlo primordiale che ci riconcilia violentemente (ossimoro voluto) con le ragioni del fare cinema come strumento privilegiato per indagare le ragioni del nostro esserci.
Un “NO!” bello e necessario, insomma.

Su Re è un film strappato alle viscere di questo paese ambientato fra le pietre della Sardegna che risuona d’una lingua durissima e aspra.
Una contraddizione scioccante in un paese dimentico delle proprie lingue e felice della propria catastrofe borghese.

Senza contare che Giovanni Columbu, invece, osa iniziare Su Re con quella che a tutti gli effetti, stando alla grammatica maggioritaria, è un’inquadratura “sbagliata”. 
Un’inquadratura che sembra fatta da un operatore mentre stava per rovinare fra le rocce. Una scelta di campo che, a nostro avviso, avvicina il film di Columbu allo straordinario Leviathan della coppia Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, uno dei film che insieme a Twixt di Francis Ford Coppola, Tabù di Miguel Gomes eHoly Motors di Leos Carax ha riposizionato la barra del cinema contemporaneo verso una modalità di pensiero complessa e aperta. 

Nonostante il cinema italiano vanti opere importanti che hanno portato sullo schermo la vita e la passione di Cristo – da Christus di Giulio Antamoro (1916) a Il vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini – Su Re si segnala come un lavoro di rara audacia formale attraversato da una commozione vera e altissima.

Columbu decostruisce la linearità narrativa della vicenda cristica. Come un incubo che s’avvolge su stesso, il regista pone al centro del suo film il mistero della crocifissione. Intorno a esso, come in un sogno continuamente interrotto che scorre su un nastro di Escher difettoso, brandelli della vita di Cristo sono posti costantemente in relazione con la morte sulla croce. La croce dunque come interrogativo ineludibile della vicenda terrena di Cristo.

Giovanni Columbu filma con una furia inebriata eppure controllata. La macchina a mano si muove come calata in un vortice di violenza impedendo allo spettatore di darsi qualsiasi punto di riferimento per orientarsi. 

Le inquadrature di Su Re sembrano brandelli di spazio conquistati a fatica al resto del mondo e della vita. Come se il cinema non avesse (più) diritto di cittadinanza nel mondo e dovesse riconquistare il proprio posto strappandolo con le unghie.

Rispetto a Totò che visse due volte, opera dal nitore dreyeriano vicina al film di Columbu per la scelta del dialetto, degli interpreti non professionisti e degli ambienti naturali, Su Re spezza qualsiasi riconoscibilità cinefila. Anche i pur evidenti riferimenti pittorici sono come gettati nel mucchio senza alcuna preoccupazione che lo spettatore li possa riconoscere o meno. Anche se ovviamente Bosch e Brughel sono presenti nei lineamenti degli interpreti, nel paesaggio e nella composizione dei corpi in relazione alla profondità di campo.

Ciò che conta nel film di Columbu è il lavoro della macchina da presa, instancabile nella sua violenza dionisiaca, e il montaggio che interviene con ulteriore violenza sul girato già di suo vertiginoso.

Rispetto per esempio a un film importante come Il canto degli uccelli di Albert Serra, Columbu non cerca mai volutamente l’immagine lirica o evocativa. Tutte le inquadrature sono tagliate e montate in spregio a qualsiasi ottica di linearità. Nessun attacco è rispettato e la profondità di campo si gioca sempre contro il più bruciante dei primi piani o dettagli. 

Come se il mistero di Cristo non potesse essere detto che da una voce o lingua che rinunci prima di tutto a essere lingua o voce per diventare altro da se e ritrovare così (forse) Cristo nell’esilio e nella distanza dal mondo. Diventare irriconoscibili e inconoscibili a se stessi e al mondo per andare incontro al mistero della Salvazione. Andargli incontro privi di tutto. 

Che questo interrogativo sia formulato e detto da Columbu attraverso i soli mezzi del lavoro cinematografico è forse il merito maggiore del film che in questo si apre allo sguardo senza anteporre alla fruizione necessariamente le clausole del discorso confessionale.

Su Re dunque è un film importante e che resterà. L’opera di un regista forte e singolare che ci ricorda tutto ciò che il nostro cinema non è più.

La Repubblica di Giona A. Nazzaro

GIOVANNI COLUMBU  

Nato a Nuoro e laureato in architettura, è stato assessore alla cultura a Quartu Sant'Elena dal 1992 al 1995. Ha realizzato diverse mostre di pittura e video arte, tra cui "Strategia di Informazione" alla Rotonda della Besana e al Palazzo della Permanente di Milano.
Ha lavorato come programmista regista per la RAI sede di Cagliari dal 1979 al 1999 realizzando numerosi programmi televisivi. Tra questi: Visos - sette sogni raccontati e interpretati dai sognatori, selezionato Premio Italia 1985 e Imput Montreal (1986) e Villages and Villages vincitore Prix Europa 1991 - miglior documentario prodotto da un'emittente pubblica europea.
Nel 1999 ha costituito la LUCHES FILM realizzando come regista diversi documentari tra cui: Storie Brevi, Premio Hermes - miglior documentario di promozione turistica - 2005. Nel 2001 realizza il film Arcipelaghi, che vince diversi premi per la sceneggiatura e nel 2003 all' Arena Nuovo Sacher il premio "Bimbi Belli" come miglior film.
Giovanni Columbu ha scritto diversi libri tra cui "L'Arma dell'immagine" (ed. Mazzotta 1977), "Lollas - La città immateriale" con prefazione di Renato Nicolini (ed. CUEC 1998), e "Visos - sogni visoni avvisi" (ed. Ilisso 1990), con prefazione di Cesare Musatti.
Giovanni Columbu vive a Cagliari e Su Re è il suo secondo lungometraggio.

___________________________________________________________________

La rassegna  autofinanziata dagli Amici del Cineforum di Todi, persuasi che una attività di buona cultura cinematografica sia la piattaforma ideale per ripensare ad una cultura dell’incontro e del senso di comunità. Ben venga dunque il buon cinema! 

Invitiamo proprio tutti affinché la rassegna possa diventare uno dei luoghi identitari dove la comunità di Todi sia in grado di riconoscersi, per riscoprire se stessa, le proprie radici culturali e spirituali, con orgoglio e fierezza.  

L’intero programma è consultabile su Facebook: Amici del Cineforum di Todi.

 

Condividi