Andromaca, Cassandra, Ecuba, donne del mito, vittime della guerra.
di Maria Pellegrini.
In tutte le guerre si ripete lo stesso copione: morti, macerie, violazione delle libertà fondamentali e dei diritti umani, torture, e - il più odioso di tutte le atrocità che un conflitto porta con sé - lo stupro di donne da parte dei vincitori. Di questo orribile crimine, frutto malato della guerra, si parla poco perché è più facile mostrare le distruzioni, le migliaia di morti piuttosto che scendere nel dettaglio di episodi che si cerca di cancellare dalla memoria per la loro infame scabrosità.
Le tragedie greche hanno nei secoli testimoniato la consuetudine di usare violenza alle donne dei vinti che diventano un bottino, schiave sessuali, merce di scambio, corpi senza alcun diritto. È un misfatto che tutte le guerre del mondo civilizzato hanno poi riattualizzato anche discriminando le vittime sulla base della loro appartenenza religiosa.
L’ateniese Euripide, uno dei maggiori poeti tragici antichi (488-406 a. C. ) nelle “Troiane” presenta al pubblico quanto avviene dopo che Troia, conquistata con l’inganno, è data alle fiamme e porta in scena la guerra vista con l’occhio delle donne della casa reale, tenute in catene in attesa di conoscere la propria sorte. Euripide, che vive al tempo di un’Atene potente, non è allineato alle idee imperialiste della città, e ciò è evidente in questa sua opera nella quale segue le tristi vicende di tre figure femminili travolte dalla spirale della violenza: Ecuba, moglie del re Priamo, Andromaca, che ha visto morire il valoroso sposo Ettore in duello con Achille, Cassandra, figlia del re e sacerdotessa di Apollo. Su ciascuna di loro incombe un doloroso imminente futuro: la partenza verso un altrove che significa schiavitù, umiliazione e miseria morale.
Questa tragedia, che affonda le radici nel lontano passato, ha come sfondo la fine della città di Troia, rappresenta il dolore degli sconfitti di fronte all’aggressività dei vincitori e soprattutto il triste destino delle “troiane” divenute schiave dei vincitori: Andromaca è assegnata a Neottolemo, figlio di Odisseo , Ecuba a Odisseo, Cassandra ad Agamennone.
Euripide ripercorre le vicende di questi tre personaggi femminili ed evidenzia la follia della guerra, dà voce alle “vinte” e non ai “vinti”, partendo dal concetto che non può mai esistere una guerra utile. Mostrando le fosche conseguenze degli odi e dei conflitti bellici, manifesta il suo desiderio di una convivenza pacifica tra i popoli. Rappresentata nel 415 a.C. all’indomani del massacro della città di Milo attuato da Atene nel corso della Guerra del Peloponneso, “Le Troiane” sono lo specchio di tutte le donne sopravvissute alle guerre di ogni tempo, destinate dai vincitori a schiavitù, esilio, violenze, fatiche e privazioni.
Andromaca compare per la prima volta nell’Iliade omerica. È il decimo anno della guerra di Troia, Ettore si prepara a combattere contro Achille, lei con il figlio Astianatte in braccio, lo scongiura:
“Ettore, tu sei per me padre, madre, fratello, e sei anche il mio giovane sposo. Abbi pietà di me e resta qui sulla torre, non rendere orfano tuo figlio e vedova tua moglie!”
Ettore riesce a farla desistere dai suoi intenti e le rivolge parole profetiche:
“Soffro per te, che qualcuno dei Greci dalla corazza di bronzo potrà trascinare via piangente e priva per sempre della libertà… ma ora vai a casa, ritorna al telaio e al fuso, e ordina alle ancelle di fare il loro lavoro: la guerra spetta agli uomini, a tutti gli uomini di Troia e soprattutto a me”.
Andromaca si allontana dal marito con l’infausto presagio ch’egli non avrebbe più fatto ritorno e, giunta alla reggia, incita le ancelle a piangere con lei per la sorte del suo sposo.
Nella tragedia di Euripide Andromaca si appresta a salire sulla nave che la porterà come prigioniera di guerra alla reggia di Neottolemo (chiamato anche Pirro) figlio di Achille. Ad Ecuba si rivolge rassegnata:
“Godevo un tempo della buona fama che una vita onesta giustamente suscita: quando ero sposa di Ettore, fui attenta ad evitare ciò che poteva offendere il suo e il mio onore. Ho rinunciato a molte frivolezze, alle chiacchiere con care amiche, preferendo a tutto la quiete della mia casa. Quando mio marito ritornava, il mio viso era limpido e sereno; e dolce parlavo con lui, pronta a tacere, ma anche a prevalere, se fosse giusto. Queste virtù, note anche ai Greci, mi hanno perduta. Il figlio di Achille mi ha preteso per sé, e così sarò serva nella casa dell’assassino di Ettore! Ora, se mi concedo al mio nuovo signore, mi sentirò pessima donna. Se lo disprezzo, mio figlio ed iosaremo in pericolo. … Mi ripugna colei che dimentica il primo amore e passa al secondo…ma che posso fare io, trascinata a forza nella casa di un altro, se non piegarmi al giogo?”
Pur essendo pronta a piegarsi ai voleri di Neottolemo, le è strappato dalle braccia il figlio Astianatte, del quale i Greci hanno decretato la morte: secondo consiglio di Ulisse è gettato dalle mura della città perché la stirpe di Priamo non deve avere alcuna discendenza. Mentre gli prendono a forza dalle braccia il figlio, urla disperata:
“Figlio adorato, conforto estremo dei miei giorni, devi lasciare sola tua madre... Ti getteranno dalle mura, senza pietà, una piccola cosa buttata via … quante volte ti ho stretto al mio seno, accarezzandoti il viso profumato! Quante dolci fatiche ho compiuto per te, con tanta gioia, cullandoti e avvolgendo nelle fasce il tuo tenero corpo” e rivolta ai Greci: “Belve crudeli, che sapete escogitare supplizi nefandi, degni della barbarie più selvaggia … perché uccidere un bimbo? Sono gli inermi cuccioli la preda dei leoni?”
Diventata concubina alla reggia di Neottolemo, genera un figlio, Molosso. Per questa ragione incorre nella gelosia di Ermione, sposa legittima di Neottolemo che la accusa di esercitare arti magiche per renderla sterile e così prendere il suo posto. Per questo Neottolemo cede Andromaca allo schiavo Eleno, fratello di Ettore.
La ritroviamo nell’ “Eneide” virgiliana, in Epiro. Come lei racconta ad Enea - sbarcato in Epiro durante le sue peregrinazioni alla ricerca della nuova patria destinata dal Fato - Neottolemo è stato ucciso a tradimento. Eleno ha sposato Andromaca e, divenuto patrigno di Molosso, ha ereditato una parte della regione dell’Epiro, e vi ha costruito una città, una piccola Troia dove lei ha ritrovato serenità sebbene non abbia mai dimenticato Ettore. Enea vede Andromaca mentre sta celebrando un solenne rito funebre in onore del defunto marito. Fra i due hanno luogo scene commoventi, in cui è soprattutto notevole la sollecitudine che la donna ha per il piccolo Ascanio, figlio di Enea, che tanto le ricorda il suo Astianatte.
Cassandra è una figura della mitologia greca. Figlia di Ecuba e di Priamo, è sacerdotessa nel tempio di Apollo da cui ha avuto la facoltà della preveggenza. Secondo la versione più famosa sull’origine del dono profetico, è Apollo che per guadagnare il suo amore le ha donato questa dote ma, una volta ricevuta, Cassandra rifiuta di concedersi a lui: adirato, il dio la condanna a restare sempre inascoltata, infatti le sue premonizioni non saranno mai credute.
Tale triste destino la perseguita finché vivrà: non riesce a persuadere i concittadini quando vaticina che Paride avrebbe provocato la rovina di Troia, né quando preconizza che il rapimento di Elena si sarebbe risolto in un disastro, né quando cerca d’impedire il trasporto in città del cavallo di legno lasciato dai Greci sulla spiaggia, ammonendo ch’era pieno di soldati, né in altre occasioni. Distrutta Troia, diventa preda di guerra di Agamennone che la conduce con sé a Micene
In Euripide l’Atride è presentato come vittima di Eros e dunque costretto a piegarsi all’amore per una schiava che essendo sacerdotessa di Apollo viene violata in maniera empia. Costretta ad abbandonare il sacerdozio, segue Agamennone in Grecia non per servirlo, ma per condividerne il talamo come concubina. Ciò sarà la causa della morte di entrambi ad opera della moglie legittima Clitennestra, poiché il principale movente della regina sarà la gelosia nei confronti della donna portata in patria dal marito.
Ecuba, seconda sposa di Priamo, genera al marito diciannove dei cinquanta figli che si tramanda il re di Troia abbia avuto, tra cui Ettore, Paride, Eleno, Polissena, Cassandra.
Nell’Iliade Ecuba ha un ruolo abbastanza importante: la vediamo recarsi al tempio di Pallade insieme con le matrone troiane per offrire un peplo alla dea; più tardi, dall’alto delle mura supplica Ettore di non affrontare Achille e poi ne piangerà con accenti desolati la morte; quando Priamo decide di andare nel campo avversario per richiedere ad Achille il corpo del figlio, cerca di distoglierlo dal proposito temendo per la sua stessa incolumità. Nella tradizione post-omerica la leggenda di Ecuba. si arricchisce di elementi nuovi per opera delle tragedie soprattutto di Euripide, che nelle “Troiane” apre la scena con il dio del mare Poseidone che piange la fine di Troia di cui ha costruito le possenti mura insieme ad Apollo, e ha pietà per il dolore di Ecuba:
“Fin da quando, con Apollo a compagno, innalzai queste mura… rotolando e sovrapponendo pietra su pietra su pietra … ebbene, ho avuto nel cuore questa città. Ma ora essa è cenere e fumo…. Ora i sacri recinti sono deserti, i templi grondano sangue, il vecchio re Priamo giace sgozzato ai piedi dell’altare di Zeus. E gli Achei trascinano alle navi carico immenso di oro e ricchezze, aspettando ansiosi il vento favorevole per tornare alle case lontane, alle spose e ai figli che non ricordano più. Ha vinto l’odio implacabile di Era e di Atena, ed anch’io, sconfitto, lascerò la città, dove ogni culto è cessato e regna soltanto l’orrore. Udite? Il fiume rimanda le grida delle troiane, tratte a sorte per l’uno o l’altro guerriero:…. Ma se volete sapere che cos’è l’infelicità, guardate Ecuba, strazio vivente. Come sopportare il pianto e l’angoscia? È stato trucidato il suo sposo, sono caduti tutti i suoi figli. Ma non sa ancora che la piccola Polissena è morta, offerta quale vittima sulla tomba di Achille; e che l’amata Cassandra, la povera vergine preda dei furori di Apollo, sarà condotta tra poco al letto di Agamennone. O mia città! Mie torri, un tempo alte e felici! Senza l’odio di Pallade, sareste ancora il baluardo invitto di Troia!”
Anche Ecuba di fronte alla città che va in fiamma esclama:
“Si consuma in un vasto incendio la città di cui ero regina. Era bella e gloriosa, e regnava sui popoli, dispensando giustizia e abbondanza. O Dei! Tutto è cenere ormai. Ma quali Dei invocare? Anche prima li invocavo, e non udirono. Allora corriamo, su, gettiamoci nel rogo! Sarà molto meglio morire gettandoci tra le fiamme che distruggono la patria!”
Poi volgendosi ad altre donne che le sono vicine, vede l’uccisione del piccolo nipote:
“Restate, vi prego, non lasciatemi sola. Abbiamo ancora molto da piangere insieme. Guardate, donne di Troia, il corpo di Astianatte! L’hanno scagliato a forza dalle mura, come si lancia un disco: gara mostruosa”.
In un’altra tragedia che porta nel titolo il suo stesso nome, “Ecuba”, la donna si trasforma da madre distrutta dal dolore a giustiziera. Dopo aver assistito alla morte della figlia Polissena sacrificata sulla tomba di Achille, apprende della morte di un altro figlio, Polidoro, che giace senza sepoltura, ucciso a tradimento dal re Polimestore presso il quale era stato mandato da Priamo. Ecuba e le altre troiane prigioniere come lei, uccidono i due figli di Polimestore e accecano lui. I nobili della città s’avventano allora furenti contro Ecuba per vendicare il loro re scagliandole sassi e dardi, ma lei si tramuta in una cagna.
Andromaca, Cassandra, Ecuba sono figure femminili emblematiche: rievocano il destino dei vinti e soprattutto delle donne quando sono ridotte a vittime spogliate delle loro identità. La guerra di Troia diventa simbolo di tutte le guerre e di tutti gli eccidi della storia umana.
Nota: nell’immagine un’anfora attica, raffigurante un duello, che risale all’ultimo quarto del VI secolo a.C. , conservata al Museum of Art (Dallas, Texas)




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