Saffo e la sua poesia di struggente e rara bellezza
di Maria Pellegrini.
La violenza contro le donne ha raggiunto le dimensioni di una vera e propria emergenza sociale. Dal rapporto sulla condizione femminile in ogni parte del pianeta emerge la drammatica fotografia di una realtà che non risparmia nessuna nazione e nessun continente. In un momento così tragico per l’universo femminile è confortante trovare rifugio nella prima voce della poesia occidentale, Saffo, nata nel 640/630 a. C. nell’isola di Lesbo, considerata culla della poesia e del canto fin dai tempi antichi.
“Dolce, ridente Saffo coronata di viole”, così la descrive il poeta Alceo, e Platone la chiama “Saffo la bella e decima musa”, tanto grande è l’incanto dei suoi versi da essere ritenuti di origine divina. È una delle pochissime voci femminili del mondo antico, e a tutt’oggi, a tanti anni di distanza, i suoi versi continuano a incantarci. Il consenso unanime della critica di ogni età ne ha fatto una delle voci più pure della poesia mondiale.
Preziosa testimone della cultura aristocratica della sua isola, Saffo è ispirata dall’amore, forza per lei incondizionata, irrinunciabile e irresistibile. Ai valori del mondo maschile contrappone l’oggetto di ciò che il proprio cuore desidera:
“Quale la cosa più bella /sulla terra nera? Una torma di cavalieri, /dicono alcuni, / altri di fanti, altri di navi./Io, ciò che si ama”.
Nei versi che seguono Saffo porta a esempio il mito d’Elena, che rappresenta l’incarnazione del bello e dell’amore (i due valori cardini secondo Saffo): la sua passione per Paride non viene presentata come sentimento nato liberamente nel suo animo, bensì come una forza ineluttabile, imposta da un dio. Mentre la tradizione la condanna perché per seguire Paride ha abbandonato il valoroso marito, la figlia, i genitori, lei la riabilita perché questo sentimento indotto da una dea fa dimenticare ad Elena tutto ciò che aveva di più caro: è stata “travolta” dalla forza suprema della passione, ispirata da Afrodite, dea della bellezza e dell’amore.
Il fulcro della vita e dell’attività poetica della poetessa di Lesbo è l’ambiente del “tìaso”, una comunità di ragazze di famiglie facoltose riunite nella sua casa dove lei svolge il ruolo di una sorta di sacerdotessa di Afrodite. Le fanciulle non sono per lei alunne, ma “seguaci delle Muse nella cui casa non è lecito il pianto”, infatti imparano la danza, il canto, ma anche a essere testimoni di Afrodite, desiderabili, capaci di muoversi con grazia, di cospargersi di profumati unguenti, ornarsi di corone, prepararsi al matrimonio e alle gioie dell’amore.
Un alone romanzesco circonda la vita e la morte di Saffo che probabilmente raggiunge la vecchiaia, almeno in questo senso vengono interpretati alcuni suoi versi in cui fa riferimento a un certo decadimento fisico che sembra accogliere con pacificata rassegnazione:
“La mia pelle teme profondamente la vecchiaia / bianco divenne il capello, un tempo in trecce nere, / le ginocchia non mi reggono più / e danzano così leggere come cerbiatto / ma cosa posso fare?”
La constatazione dell’ineluttabilità dei suoi mali non le impedisce di affermare, in modo efficace e originale, una sorta di attaccamento alla vita, al di là di qualsiasi insidia degli acciacchi e del tempo.
È certo che Saffo trascorre la sua vita nel comporre versi e nell’occuparsi delle giovani e aristocratiche fanciulle a lei affidate. Della sua vasta produzione poetica sono giunti fino a noi circa duecento frammenti, tra cui un’ode completa. Pochi poeti hanno sentito come lei, la violenza, la potenza e il dramma dell’amore, ed essere stati capaci di esprimere in modo così drammatico e diretto l’angoscia, la malinconia, l’abbandono, il rimpianto di un affetto perduto.
Nell’“Invocazione ad Afrodite”, l’unica ode pervenuta completa, la poetessa supplica la dea di non irretirla in un amore infelice:
“Vieni a me anche ora,/ scioglimi dalle aspre pene,/ colma tutti i desideri dell’animo mio,/ sii mia alleata”.
In un lungo frammento di un’altra ode, detta “della gelosia”, imitata, quasi tradotta dal poeta latino Catullo, sei secoli dopo, Saffo registra con lucidità e precisione le sofferenze psichiche e fisiche della passione d’amore:
“Sembra a me simile agli dei / quell'uomo che siede di fronte a te / e vicino ascolta te / che dolcemente parli/ e ridi; proprio questo mi fa / balzare il cuore nel petto: / appena ti vedo, subito /non so dire più nulla, / la lingua si spezza,/ un fuoco leggero sotto la pelle /mi corre, nulla vedo con gli occhi, /e le orecchie/mi rombano,/ un sudore freddo mi pervade,/ un tremore tutta mi scuote, /sono più verde dell’erba; /e poco lontana mi sento dall’essere morta;/ ma tutto si può sopportare…”.
I versi sono stati variamente interpretati: come una composizione destinata dalla poetessa ad un'amica che lei vede in compagnia di un uomo, probabilmente prima delle nozze; o come espressione di struggente dolore per l'addio di una ragazza che, andando in sposa, sta per lasciare il tiaso, oltre che di gelosia vedendola nell’incontro col promesso sposo, oppure espressione di un amore passionale di Saffo stessa. Ma ciò che ha reso famosi questi versi è la descrizione minuziosa dei sintomi fisici del turbamento che la passione amorosa produce, l’analisi di un’esperienza universale, non riconducibili a un’esperienza autobiografica.
Ma il vertice poetico e nello stesso tempo emotivo raggiunto da Saffo è rappresentato da due brevissimi frammenti di disperata intensità e inconsolabile malinconia, espressioni l’uno della forza struggente della passione:
“Eros squassa l’animo mio, /come il vento sui monti che investe le querce”
l’altro pervaso dalla nostalgia per una persona cara lontana:
“Tramontata è la luna e le Pleiadi: a mezzo è la notte, / il tempo trascorre / e io dormo sola”.
La natura è spesso oggetto di canto ed è in stretto rapporto con il tema dell’amore. Le descrizioni di elementi naturali hanno funzione di paragone con la realtà descritta nei suoi versi, come questi che descrivono un plenilunio per paragonare la bellezza di una fanciulla che supera le sue compagne come la luce della luna offusca quella delle stelle:
“Le stelle intorno alla luna bella/ nascondono di nuovo il loro aspetto luminoso,/ quando essa, piena, di più risplende / sulla terra”.
A molte delle fanciulle del tìaso, Saffo dedica poesie che evidenziano amore e non semplice affetto:
“Sei giunta: hai fatto bene: io ti bramavo. / All’animo mio che brucia di passione, hai dato refrigerio”.
Quando torna alla sua mente una giovane partita per andare sposa in terre lontane, il dolore per la separazione rende l’aspetto della fanciulla evocata simile allo splendore della luna:
“Ora ella risplende tra le donne di Lidia / come talora, tramontato il sole, / la luna dalle dita di rosa /vince tutte le stelle. /La sua luce sfiora il mare salato /e i campi screziati di fiori”.
O alla partenza di un’altra esclama:
“Avrei davvero voluto morire /quando lei mi lasciò in affannoso pianto”.
La lirica e la personalità di Saffo hanno particolarmente affascinato i poeti romantici e decadenti, che di lei hanno preferito cogliere il lato più introspettivo, inquieto e sofferente. Ciò che ha portato il Romanticismo a privilegiare la poetessa di Lesbo tra tutti gli altri lirici greci, è stato probabilmente il fatto che ella più di ogni altro aveva saputo trattare il sentimento amoroso con una profonda partecipazione interiore.
Troppo a lungo si è insistito sul tiaso da lei fondato per educare le fanciulle al culto delle Muse e sugli strani dolci amori che là fiorivano. Ma non bisogna dimenticare che proprio in quel luogo privilegiato nasceva una poesia unica, struggente e di rara bellezza.
Sulla sua morte non vi sono dati certi; Leopardi riprende, nell’“Ultimo canto di Saffo”, l’antico mito secondo il quale Saffo si sarebbe gettata da un rupe a causa di un amore non corrisposto per il battelliere Faone, personaggio leggendario della mitologia greca. Leopardi la raffigura amante della bellezza e della giovinezza, sofferente per amore, completamente affranta e rassegnata a un dolore che non è solo il suo, ma quello inevitabile di tutta l'umanità. Ella si fa portavoce del poeta che ha perso le illusioni primitive e diviene cosciente del vero.
L’idea della morte nella poesia di Saffo invece suggerisce armoniose immagini di serenità e di bellezza, perché per lei il regno delle tenebre non può non avere giardini coperti di fiori e bagnati di rugiada:
“E mi prende un desiderio di morire, /e di vedere le rive dell’Acheronte/ coperte di rugiada, fiorite di loto”.
NOTA:
L’immagine è un busto in marmo di Antonio Canova, Erma di Saffo, 1819-1820 situato a Torino alla Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea.
Di Saffo non abbiamo un ritratto sicuramente fedele al suo aspetto, ma immagini sempre idealizzate sia come quella del Canova, sopra riprodotto, sia come quella dell’affresco pompeiano databile a un età posteriore al 60 d. C, che non è possibile identificare con la celebre poetessa greca da cui riceve il nome, inteso piuttosto a mettere in risalto l’appartenenza della fanciulla a una famiglia colta e facoltosa, ritratta con le tavolette di cera, pensierosa nell’atto di incidere con lo stilo i suoi versi, o i sui pensieri.

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