Domiziano convoca il gran consiglio per discutere sul modo di cucinare un pesce
di Maria Pellegrini
Domiziano aveva ricevuto in dono un enorme rombo catturato presso Ancona. Allora le spiagge della penisola pullulavano di spie pronte a denunciare chi pescasse qualcosa di eccezionale e non lo donasse immediatamente alla tavola imperiale, perciò il pescatore che aveva tratto nella sua rete quell’eccezionale esemplare marino, sapeva bene che una donazione spontanea era il metodo migliore per non avere guai.
Il poeta Giovenale raggiunge il vertice della caricatura satirica quando narra che Domiziano ha convocato i membri del “consiliumprincipis” (organo consultivo che affiancava l’imperatore nelle decisioni importanti) per discutere in quale modo cucinare il grosso pesceche egli ha avuto in dono. Non è che un aneddoto, ma questo basta al poeta per delineare un’intera situazione politica e morale, quella della tirannide dell’imperatore, l’ultimo dei Flavi, che il poeta chiama “calvo Nerone”perché era calvo (di ciò si doleva molto) e simile per nefandezze a Nerone.
Ma lasciamo parlare Giovenale: “Quando l’ultimo dei Flavi straziava il mondo esanime e Roma era schiava d’un calvo Nerone, un rombo adriatico di enormi dimensioni cadde nella rete davanti al tempio di Venere che domina Ancona, e la riempì con la sua mole. […]Chi avrebbe osato esporre in vendita o comperare un tal pesce quando tutto il litorale pullulava di delatori? I guardiacoste, sparsi qua e là, non avrebbero tardato un momento a portare in giudizio il povero pescatore e a sostenere che quel pesce per lungo tempo nutrito nei vivai di Domiziano, dove era cresciuto e sicuramente fuggito da lì, doveva subito ritornare all’antico padrone”.
Il pescatore si affrettò dunque a offrirlo a Domiziano che si trovava ad Alba, l’antica città laziale fondata dal figlio di Enea, dove trascorreva buona parte della stagione estiva. Insieme a lui erano i collaboratori chiamati a consiglio.
Questa trovata comica permette a Giovenale di farsi beffe di Domiziano e dei suoi stretti collaboratori, componenti di quel “consiliumprincipis”, che pavidamente si rendevano complici di ogni sua malefatta con l’accettazione tacita della sua politica del terrore. Domiziano li ha convocati costringendoli ad arrivare in gran fretta come se si fosse dovuto discutere di bellicose popolazioni germaniche, o “come se da regioni lontane del mondo gli fosse giunto con rapido volo un preoccupante messaggio”.In quel frangente il consiglio erainvece chiamato alla decisione su come cucinare lo straordinario e gigantesco rombo: a pezzio intero in una nuova padella di terracotta adeguata alle proporzioni del pesce?
Tutta la satira, per la sproporzione fra la solenne importanza del consesso e l’inconsistenza della decisione da prendere,si svolge come la parodia di una scena teatrale. Dopo l’invito fatto da un araldo, il pescatore entrato nella sala del Palazzo e invitato a depositareil dono davanti a Domiziano, con ipocrita umiltà lo prega di accettare quel pesce “troppo grande per una casa privata”, earriva alla sfacciataggine di dire: “È stato lui che ha voluto farsi prendere”. Eppure l’imperatore non coglie l’adulazione del suo suddito, anzisi inorgoglisce. Il poeta commenta: “Non vi è nulla che un uomo, fatto potente come un dio, possa credere che non sia vero quando viene lodato”.
Sono poi presentati uno dopo l’altro i consiglieri, bollati in impietosi ritratti, adulatori mansueti o spietati, delatori, immorali, ma tutti pavidi per non rischiare la testa; ognuno incarna uno degli aspetti caratteristici del principato domizianeo. Crispo, ex console, un mansueto che “non tese mai le sue braccia per remare contro corrente, né capace di esprimere liberamente il suo animo e di sacrificare la vita per amore di verità”, sarebbe stato prezioso se sotto il giogo “di quella peste sanguinaria” avesse potuto condannare la crudeltà ed esprimere un onesto consiglio. Con la sua prudenza visse fino a ottant’anni al sicuro persino in quella corte. Avanza poi, non sereno in volto, Rubrio, “colpevole com’era d’una antica, innominabile colpa” (sedusse infatti una nipote di Domiziano). Poi incede lentamente “il ventre di Montano”, avanzando si vede infatti prima il suo pingue ventre; lo segue Crispino corrotto e crudele, un coacervo di vizi, un “mostro” trasudante fin dalle prime ore del giorno di tanto profumo “quanto non ne esala nemmeno da due cadaveri”, e più crudele di lui appare un certo Pompeo abituato a far scannare la gente con il “tenue sussurro delle sue delazioni”, ma c’è anche il micidiale Catullo Messalino, era cieco eppure nessuno più di lui alzò lodi del rombo, guardando a sinistra mentre il pesce era alla sua destra. Non gli è da meno Veientone con la sua adulazione sfacciata: quasi ispirato da dono profetico arriva ad ipotizzare che quel pesce sia un auspicio di gloria militare in luoghi lontani: “Oh straordinario presagio d’alto e luminoso trionfo! Catturerai qualche re; il capo dei Britanni cadrà dal suo carro! Vien da lontano questa belva! Guarda le punte aguzze sul suo dorso!”
L’imperatore comincia a essere stizzito, vuol concludere la seduta del consiglio e rivolto a Montano domanda: “Insomma, che proponi? Lo si taglia?” Ma lui pronto: “Sia lontano quest’affronto da un così stupendo pesce! Si prepari piuttosto una profonda padella di terracotta, che con le sue pareti racchiuda un vasto e rotondo spazio! Si prepari l’argilla e la ruota”. Non contento di ciò, il consigliere propone all’imperatore che dato il possibile ripetersi di una tale situazione, i vasai, novelli Prometeo (che plasmò gli uomini con il fango)dovranno essere aggregati all’esercito. “La proposta di un tant’uomo prevalse”. La seduta si scioglie e il poeta si concede una riflessione: “Magari Domiziano avesse sciupato in simili sciocchezze la sua vita sempre improntata a ferocia, quando privò la città di tanti cittadini illustri!”
Uno dei bersagli di Giovenale è proprio il “consilium principis”, che da organo fondamentale della politica imperiale è ridotto a discutere di cottura di un pesce. È chiaro lo scopo del poeta: rappresentare la futilità di un potere che invece di affrontare seri problemi di stato si esprime in modo da suscitare il ridicolo e lo sdegno. In questa satira non v’è più la consueta indignazione, c’è piuttosto irrisione pienamente soddisfatta di sé, anche perché l’oggetto non è più la gente della strada o dei palazzi, ma il simbolo del potere stesso: l’imperatore Domiziano e la sua corte.
Ma chi era Giovenale? Era nato fra il 50 e il 60 d. C. ad Aquino, antica città volsca, nel cuore della vecchia provincia italica; certamente la sua origine ebbe profonda influenza sulla sua poesia permeata di spirito tradizionalistico, legato al mito dell’antica Italia agreste, povera e incorrotta. La sua violenta protesta ebbe come punto di riferimento il “mosmaiorum”, il costume degli avi, metro costante con cui misurare la corruzione del presente. Suo punto di riferimento era la vecchia Roma, quella degli agricoltori e dei soldati delle guerre italiche nel tempo in cui la povertà non procurava affanni e non toglieva serenità e dignità alla vita.
Dopo la morte di Domiziano avvenuta nel 96 d. C., i nuovi principi Nerva e Traiano cercarono di evitare quell’eccesso di autoritarismo che avevano reso inviso alle classi alte e a gran parte degli intellettuali il nome del loro predecessore, e iniziarono una politica di conciliazione e di collaborazione con il Senato. Realizzarono un programma di riforme economiche, lasciarono agli scrittori maggiore libertà di espressione, rinunciando all'imposizione di una propria politica culturale.
I maggiori letterati dell’epoca, Tacito e Giovenale, accolsero con favore e speranza la linea dei nuovi prìncipi e nelle loro opere stigmatizzarono le aberrazioni del passato regime. L’interesse di Tacito fu politico e si concentrò sul problema della tirannide e del servilismo; quello di Giovenale si rivolse ai fenomeni sociali e di costume. Ma lo sguardo volto agli orrori del passato non impedì loro di vedere le debolezze del presente e di denunciarle. Nonostante si respirasse un’aria più distesa e di maggiore benessere economico, non vi era stato, sotto i Flavi, un ritorno alle libertà politiche, né si erano attenuate le gravi ingiustizie sociali. Fu soprattutto la constatazione della decadenza morale, delle sperequazioni economiche, della corruzione, dell’ipocrisia dilagante a provocare lo sdegno di Giovenale.
Quando pubblicò le prime “Satire” tra il 100 e il 110, dopo la morte di Domiziano -per prudenza non aveva osato prima - aveva sperato che la dinastia dei nuovi imperatori “adottivi” lo avrebbe ricompensato della sua aggressiva irriverenza nei confronti dell’ultimo impopolare principe della dinastia dei Flavi. Ma le sue aspirazioni di successo fallirono: da qui anche l’amarezza e l’astio contro l’ingiustizia della società e della sorte.
La visione che Giovenale ha del mondo è la più buia che sia mai stata rappresentata dai poeti latini. Il poeta stesso indica nella prima satira quale era l’argomento principale della sua poesia: “ tutto ciò che gli uomini fanno, i desideri, i timori, l’ira, il piacere, la gioia, il loro agitarsi”; ma in una successiva precisazione rivela chiaramente che la sua attenzione si sarebbe concentrata esclusivamente sulla parte negativa dell’agire umano, e sul dilagare dei vizi che egli denuncia senza però voler educare e correggere e senza alcuna prospettiva di un mondo diverso e migliore.
Giovenale, venuto a cercare fortuna a Roma, finisce per odiare la capitale dell’impero, per la confusione che vi regna, il traffico convulso, le ricche carrozze che travolgono i poveri pedoni, l’arroganza dei militari, le oziose riunioni di smidollati aristocratici, la folla che si assiepa negli stadi. Non era riuscito a integrarsi nella società romana del suo tempo: quella prevalentemente mercantile, burocratica e, in un certo senso, cosmopolita della seconda metà del I secolo d.C.Egli è continuamente “indignato”, e in molti casi furioso. Del resto è Giovenale a dire, certo di se stesso, “si natura negat, facitindignatio versus”, “se non l’estro naturale, è l’indignazione a suggerire i miei versi”. In effetti, il suo sangue di provinciale laziale ribolle continuamente, le sue parole sono schiaffi o staffilate, il suo mondo è assolutamente privo di speranza e di amore, privo di indulgenza e di sorriso. Nessun ceto sociale si salva dalle sue invettive, ma il bersaglio prediletto di questo poeta, che vorrebbe forse essere un riformatore di costumi corrotti ed è invece un irriducibile conservatore, sono le donne. Giovenale si scaglia non tanto contro i loro vizi (la sua misoginia porta fino alle conseguenze estreme una tendenza indiscutibile di tutta la letteratura latina), quanto contro la loro emancipazione.L’ideale femminile giovenaliano è l’antica matrona che accudisce la casa e i figli e non compare quasi mai in pubblico. Ma della misoginia di Giovenale parleremo un’altra volta. La sua satira VI contro le donne merita un discorso più ampio.
Nota: Immagine www.arte21.it

Recent comments
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago
12 years 9 weeks ago