di Maria Pellegrini

Era il 218 a. C., durante la seconda guerra punica (219-202 a.C.), quando Annibale, partito dalla Spagna, attraversava le Alpi con 30 mila fanti, diecimila cavalieri e 37 elefanti per sorprendere l’esercito romano. Malgrado la cronaca di questa impresa sia giunta fino a noi, rimaneva fino a oggi il mistero sul tragitto percorso dall’esercito cartaginese per attraversare l’arco alpino e giungere nella pianura padana nella zona dei Taurini (popolo che abitava nel centro dell’odierno Piemonte).

La straordinaria impresa di Annibale ha continuato nel corso degli anni ad accendere l’immaginazione e a interessare gli studiosi e gli appassionati di storia antica. L’episodio è ampiamente narrato da Polibio, che scrisse in greco verso il 150 a. C., e da Tito Livio in età augustea, ma le loro sono narrazioni epiche, prive di indicazioni geografiche precise. Purtroppo i testi spesso non vanno d’accordo e in certi passi risultano vaghi e sibillini. Moltissimi studiosi si sono cimentati nel tentativo di scoprire quale fosse stato il valico attraverso il quale Annibale giunse nella pianura padana e un po’ tutti i colli dal Tenda fino al Gottardo sono stati indicati come il valico scelto dall’audace comandante cartaginese. Il racconto di Polibio che qui riportiamo rivela due indizi importanti: si parla di una vetta da cui si vede la Pianura Padana, e dove sotto la neve fresca c’è la neve congelata dell’anno prima, e ciò significa che si sta parlando di un passo che si trova attorno ai 3000 metri, quota delle nevi perenni:

“Raggiunto il valico delle Alpi, Annibale ordinò una sosta […]. All'alba […] fu ripresa la marcia, ma la discesa si rivelò più difficile della salita. Nella notte era caduta la neve e la colonna avanzava lentamente. Giù per i sentieri scoscesi, uomini e cavalli sdrucciolavano cadendo gli uni sugli altri, a stento trattenuti dagli arbusti e dalle radici affioranti qua e là. Il passaggio di tanti uomini e animali trasformava in molle poltiglia il sottile strato di neve fresca, scoprendo il ghiaccio sottostante […] Leggendo sulla faccia di ognuno lo scoramento e la disperazione, Annibale, spintosi innanzi e fatti fermare i soldati su un promontorio, da dove la vista spaziava largamente, mostrò loro l’Italia, e ai piedi delle Alpi la pianura Padana, dicendo che essi superavano allora non solo le mura d’Italia, ma della stessa città di Roma, e che tutto il resto sarebbe stato agevole e piano, che con una o al massimo due battaglie avrebbero avuto nelle loro mani la rocca e la capitale d’Italia”.

Secondo alcuni storici Annibale non era solo un abile tattico, ma anche uno straordinario stratega che teneva conto degli effetti psicologici che potevano suscitare le sue scelte. Nonostante la grande difficoltà per giungere in Italia con questi enormi animali, anche l’aver portato in guerra gli elefanti fu una strategia psicologica quella usata da Annibale. Grande fu lo spavento che la vista di questi pachidermi procurò ai soldati romani; aleggiava ancora il ricordo di alcuni esemplari usati da Pirro re dell’Epiro durante la guerra nella conquista romana dell’Italia meridionale, quando i tarentini chiamarono in aiuto questo re straniero, circa 60 anni prima. Era l’anno 280 a. C. quando Pirro schierò il suo esercito ad Eraclea, sulle coste del golfo di Taranto, e fu qui che i Romani si trovarono a dover combattere contro animali giganteschi con un lungo naso e grandi orecchie con i quali non avevano alcuna familiarità e non ne immaginavano l’esistenza. Erano una ventina e facevano tremare la terra. Plutarco nella sua “Vita di Pirro”, Dionigi d’Alicarnasso, Eutropio, e altri storici antichi hanno descritto l’angoscia disegnata sui volti terrei dei Romani. In un primo tempo i legionari credettero che fossero dei buoi giganti e li chiamarono infatti “buoi lucani”. Fu uno scontro terribile. Gli elefanti quando caricavano lasciavano sul terreno centinaia di morti e feriti. Pirro vinse, ma fu un successo senza gioia, e soprattutto senza gloria, perché i Romani inflissero enormi perdite al nemico. Da allora si chiamano “vittorie di Pirro” quelle pagate a un prezzo insopportabilmente alto.

Tuttavia, la loro presenza in battaglia, l’aspetto terribile e minaccioso, la massa imponente capace di schiacciare uomini e cavalli, le zanne ben acuminate e la proboscide in grado di uccidere con estrema facilità, li resero, anche nel ricordo, icone della forza bruta e distruttrice della natura. Addomesticati per la prima volta dall’uomo nella valle dell’Indo più di 4.000 anni fa, usati dai persiani e quindi da Alessandro il Grande, gli elefanti furono il grande carro armato dell’antichità con la loro massa di muscoli capace di caricare a 30 chilometri orari, di scompaginare la più potente delle linee nemiche a colpi di zanne. I cartaginesi li avevano portati in Europa dalle coste del nord Africa.

Il lungo conflitto fra Roma e Cartagine, tre guerre con le alterne vicende altro non era che la lotta per l’egemonia su tutto il Mediterraneo e i territori intorno ad esso disposti: a nord, Spagna, Illiria, Grecia; a sud, le coste africane. Da una parte, Cartagine, ricca città di agricoltori, mercanti e navigatori gelosi della loro supremazia sul mare, ma anche dei loro stanziamenti in Spagna e dell’influenza esercitata sulle città della Magna Grecia; dall’altra, Roma, animata da una continua e aggressiva volontà di espansione economica, fiduciosa nel valore delle sue legioni di rudi e spietati combattenti agli ordini di condottieri abili e sperimentati in una serie di guerre offensive nella penisola a imposizione o difesa del proprio primato e dei propri interessi.

Roma alla fine della seconda guerra punica nel 202 divenne la prima potenza nel Mediterraneo Occidentale. Nel corso del quarantennio che seguì (202-149 a. C.), la politica romana scelse la strada dell’imperialismo con guerre in Macedonia e contro Antioco il Grande di Siria. Cartagine dette tuttavia qualche segnale di ripresa e fu allora che i Romani decisero di distruggerla definitivamente. La terza guerra punica ebbe inizio nel 149 a.C. con il pretesto delle ostilità scoppiate fra Cartagine e Massinissa, re della Numidia, alleato di Roma. Nel 146 a. C. Cartagine, dopo un assedio di tre anni, fu conquistata da Scipione l’Emiliano, fu distrutta, i suoi abitanti venduti come schiavi, l’area che occupava dichiarata maledetta e i domini cartaginesi trasformati nella provincia romana d’Africa.

Delle guerre puniche due sono gli episodi che hanno lasciato una grande impressione nei posteri: la descrizione che lo storico greco Polibio fa di Scipione Emiliano attonito fra le rovine della nemica Cartagine e tristemente presago del destino di morte cui la stessa Roma prima o poi non si sarebbe sottratta, e il passaggio di Annibale con gli elefanti attraverso le Alpi, sul quale si è sempre continuato a indagare per sapere attraverso quale varco alpino Annibale abbia oltrepassato la barriera delle Alpi.

Finalmente, pare che l’enigma sia stato svelato: a dircelo sono i ricercatori di una collaborazione internazionale tra la Queen’s University di Belfast, nel Regno Unito, e la York University di Toronto, in Canada, che hanno individuato con una certa sicurezza il luogo in cui Annibale attraversò nel 218 a.C. le Alpi per colpire al cuore Roma. Si tratta del Colle delle Traversette, alto quasi 3000 metri, un valico nei pressi del Monviso.

Secondo il “Times”, gli studiosi sono riusciti a risolvere il millenario mistero, trovando le tracce di escrementi lasciati quasi sicuramente dal passaggio di un esercito imponente con molti animali al seguito. È stato infatti individuato uno strato a una profondità di 40 centimetri che sarebbe la prova di una massiccia presenza animale, non spiegabile in condizioni normali. L’analisi del radiocarbonio ha poi confermato che gli escrementi animali risalgono all’epoca della spedizione compiuta dal condottiero cartaginese. Un’ulteriore conferma arriverebbe dall’analisi microbiologica: il 70% circa dei microbi presenti nello sterco sono del genere Clostridium, che è molto stabile nel suolo e può sopravvivere per migliaia di anni.

. “Lo sterco è stato trovato vicino a quello che doveva essere uno stagno o un laghetto. Questo è uno dei pochi punti nell’area adatto ad essere usato per abbeverare un così gran numero di animali. Il sito era originariamente stato scoperto durante le spedizioni geologiche nell’area e corrispondeva alla descrizione del terreno che Annibale aveva dovuto attraversare” spiega il microbiologo ambientale Chris Allen, della Queen University di Belfast.

La stampa internazionale ha diffuso queste rivelazioni rinnovando lo stupore per quell’impresa epica e quasi leggendaria di Annibale.

Nota: Immagine www.arte21.it

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