Di Maria Pellegrini

Gli scrittori greci e latini trattano spesso il tema della vecchiaia, considerandola come un’età detestabile, come il periodo più triste della vita, talvolta invece rendendo un’immagine meno deprimente di essa. Nell’età arcaica la produzione poetica greca ha rappresentato in modo contrapposto la vecchiaia, ora vista positivamente come simbolo di saggezza, di abilità nella parola, di esperienza messa in pratica per affrontare il presente, ora negativamente in quanto lontana da ogni forma di felicità  e di piacere.

Nell’epica omerica la vecchiaia è sinonimo di saggezza e lucidità incarnata da personaggi illustri come Nestore, abile nel parlare, Priamo, il nobile re di Troia. Inoltre l’avanzare dell’età non è visto come processo di disfacimento, ma come fase naturale del ciclo vitale. La buona vecchiaia è una concessione divina che comporta anche notevoli vantaggi sociali: al vecchio saggio sono infatti garantiti il rispetto e la riverenza. La decadenza fisica è compensata dalle virtù acquisite: esperienza, saggezza, eloquenza.
Esiodo (vissuto all’inizio del VII sec. a.C. ) nella sua “Teogonia” elenca i mali che generò la Notte e fra questi la “triste vecchiaia” considerata sua figlia. Ad Atene c’era un tempio dedicato a lei, dove era raffigurata come una vecchia vestita di nero; si appoggiava a un bastone mentre volgeva lo sguardo verso una tomba aperta, sull’orlo della quale posava una clessidra con la sabbia che è sul punto di esaurirsi.
Anche i poeti lirici della Grecia arcaica sono più propensi a riflettere sull’impietoso trascorrere del tempo. La caducità della vita umana e l’incombente pensiero della morte hanno spesso turbato il loro pensiero insieme all’idea del rapido avvicinarsi della vecchiaia, che hanno dipinto come un’età orribile, il periodo peggiore della vita.

Numerose le considerazioni sulla vecchiaia dei lirici arcaici greci di cui diamo qualche esempio:
Mimnermo, vissuto nella seconda metà del VII sec. A. C., chiamato il Leopardi dell’antichità per il suo pessimismo, ci ha lasciato versi memorabili nei quali si lamenta per la brevità della giovinezza, incalzata dalla triste vecchiaia. La perdita dei doni che offre la giovinezza gli fa confessare che sarebbe meglio morire giovani:

Quale vita, che dolcezza senza Afrodite d'oro?
Meglio morire, quando non avrò più cari
gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte,
che di giovinezza sono i fiori effimeri
per gli uomini e le donne.
Quando viene la dolorosa vecchiaia
che rende l'uomo bello simile al brutto,
sempre nella mente lo consumano malvagi pensieri;
né più s'allieta guardando la luce del sole;
ma è odioso ai fanciulli e disprezzato dalle donne:
tanto grave Zeus volle la vecchiaia.

In altre poesie definisce la vecchiaia “un male senza fine, più agghiacciante della morte”, elenca i disagi che porta l’avanzare dell’età senile, cioè la rovina della casa, la povertà, le malattie che colpiscono e logorano il corpo e la mente e conclude dicendo che “Non v’è un uomo al quale Zeus non dia molti mali” augurandosi di morire:

A sessant’anni, lontano da morbi e penosi affanni, mi colga il destino di morte”.

La grande poetessa Saffo (seconda metà del VII sec. A. C.) sembra accogliere la vecchiaia con pacificata rassegnazione. La constatazione dell’ineluttabilità della vecchiaia e dei suoi mali non le impedisce di affermare, in modo efficace e originale, una sorta di attaccamento alla vita, al di là di qualsiasi insidia degli acciacchi e del tempo:

La mia pelle teme profondamente la vecchiaia
bianco divenne il capello, un tempo in trecce nere,
le ginocchia non mi reggono più
e danzano così leggere come cerbiatto
ma cosa posso fare?

Tuttavia l’idea della morte nella poesia di Saffo suggerisce armoniose immagini di serenità e di bellezza, perché per lei il regno delle tenebre non può non avere giardini coperti di fiori e bagnati di rugiada:

E mi prende un desiderio di morire, /e di vedere le rive dell’Acheronte/ coperte di rugiada, fiorite di loto.

In Teognide (vissuto prima metà del VI secolo a.C.), appartenente a una famiglia aristocratica, affiora un pessimismo esistenziale, il senso della nullità dell’uomo dopo la morte. Il male di vivere è tale da farlo confessare che “sarebbe meglio non essere mai nati”, e di rammaricarsi per l’avvicinarsi della vecchiaia:

Mi rammarico della leggiadra giovinezza che mi abbandona, /piango la gravosa vecchiaia che si avvicina.

Anche il poeta greco Anacreonte,   (570 circa - 485 a. C.).  si unisce al lamento di Mimnerno e Teognide lasciandoci un quadro triste dei mali che arrivano con la tarda età, soprattutto la perdita della bellezza, ma nonostante l’angoscia della morte lo spaventi e pianga all’idea di dover percorrere la fredda via dell’oltretomba e di giungere nel regno dei morti, in lui c’è una sorte di rassegnazione, la morte è un male inevitabile, ma naturale:

Ormai canute sono le mie
tempie e bianco è il capo,
la giovinezza amabile
non c’è più, e vecchi sono i denti:
della vita dolce non molto
è il tempo che resta.
Per questo, io piango
spesso, temendo il Tartaro.
Terribile è l’antro di Ade:
penosa è la discesa;
e per chi è andato giù
è destino non risalire.

In altri versi il poeta  mostra nei confronti della morte una sorta di noncuranza di derivazione epicurea, e invita i vecchi a godere dei piaceri della vita finché non arriverà la morte:

Dicono le donne: 'O Anacreonte, tu sei vecchio;
prendi uno specchio e guarda le chiome,
che non son più quelle d'una volta,
e la tua fronte è calva'.
Orbene le chiome, se vi siano ancora
o se siano sparite io non lo so,
ma questo so bene, che al vecchio si conviene
godere le gioie quanto più egli è vicino alla morte.

Nella Grecia classica del V -IV sec. a. C. la condizione senile è oggetto di varie riflessioni: politiche, filosofiche, sociali. Per Platone (427-347 a.C.) la vecchiaia è anche l’opportunità di accrescere le virtù interiori a dispetto dell’incalzante declino fisico, per Aristotele (384-322 a. C) la senilità è negativamente condizionata dalla debolezza fisica, che influisce anche sull’intelletto e sul carattere.
I poeti tragici affrontano i problemi della vecchiaia e del conflitto generazionale con un ampio ventaglio di riflessioni.
Sofocle (497-405 a.C.) nell’opera Edipo a Colono, tragedia senile, canta i malesseri e gli acciacchi e i dolori dell’età avanzata che solo la morte può estinguere, ma anche esprime la nostalgia, il rimpianto, la contemplazione della giovinezza. Sofocle scrive questa tragedia quando ha novant'anni, pochi mesi prima di morire. Non può essere quindi un caso che l'autore ormai anziano abbia scelto di trattare proprio il tema della morte di Edipo, rivelando il pessimismo del suo pensiero. La vita è sofferenza e tribolazione e la morte è l’estrema risorsa, come già i lirici hanno affermato. Verso la fine dell'opera, il coro si lancia in una riflessione che indubbiamente riflette la convinzione dello stesso autore:

«Non nascere, ecco la cosa
migliore, e se si nasce
tornare presto là
da dove si è giunti
Quando passa la giovinezza
con le sue lievi follie,
quale pena mai manca?
Invidie, lotte, battaglie,
contese, sangue,
e infine spregiata e odiosa
a tutti, la vecchiaia.

In Euripide (485-406 a.C.) la deplorazione della vecchiaia eguaglia, e in taluni casi persino supera, le lamentazioni di Mimnerno:

Odio la triste età  se ne vada  spersa nel mare vada. /Non visiti mai case d’uomini né città./ Ali arcane  se la portino per sempre nell’etere.

Non tutti però sono così pessimisti. A Solone (640-560 a.C.), il grande legislatore di Atene considerato uno dei sette saggi, si attribuisce una frase che è diventata proverbiale: “Invecchio imparando sempre nuove cose”.
A Mimnerno, più anziano di lui,  che auspica una vita di non più di sessant’anni,  Solone risponde  così, probabilmente in una sorta di polemica a distanza:

Se mi dai anche adesso  ascolto, togli questo verso
- non rifiutare che io l’abbia pensata meglio di te -
e cambialo, o Mimnerno, canta invece così:
“a ottant’annni mi colga destino di morte”.

Nell’età ellenistica Teofrasto (372-286 a.C.) ci dà un modello grottesco-caricaturale, quello del vecchio che si atteggia a giovane; un’immagine ridicola e sgradevole della vecchiaia.
Se nella cultura greca c’è uno scarso apprezzamento per l’età avanzata, in Roma la vecchiaia è apprezzata per l’accumulo di esperienza acquisita nel corso degli anni. Ma di ciò si parlerà un’altra volta.
Per concludere in modo leggero, dopo una carrellata di tristi testimonianze, riportiamo un motto del critico letterario francese Sainte Beuve: “Invecchiare è una seccatura, ma è l'unico mezzo per vivere a lungo”.

 

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