di Maria Pellegrini.

Il vasto e prezioso epistolario ciceroniano (circa novecento lettere scritte rispettivamente all’amico Attico, ai familiari e amici, al fratello Quinto, e a Marco Bruto) è un documento prezioso per conoscere dettagli della vita privata e pubblica di Marco Tullio Cicerone, oratore, scrittore, uomo politico. Queste sue lettere, scritte nell’arco di un ventennio, tra il 65 e il 43 a.C., nel corso della crisi economica e politica della Repubblica, costituiscono una preziosa, anche se parziale, testimonianaza del clima arroventato di un periodo fra i più turbolenti della storia romana. Inoltre mostrano l’aspetto più umano e forse meno conosciuto del grande oratore e scrittore e ci offrono il ritratto di un uomo ben più complesso e inquieto di quanto comunemnte si creda, un uomo con le sue debolezze, gli intrighi di corridoio, le amicizie, i gusti letterari e artistici, le manovre segrete, le ambizioni frustrate, e ci offrono anche l’immagine di un padre attento ai sentimenti dei suoi familiari e partecipe agli avvenimenti della famiglia, anche quando si trova lontano da essa. Perciò abbiamo voluto qui prendere in esame alcune lettere dirette da Cicerone alla moglie Terenzia (dal libro XIV delle Ad familiares) scritte in tre periodi della sua vita: quando va in esilio in Grecia (58-57 a. C.), quando è inviato come proconsole in Cilicia (51-50 a. C.) e durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo (49-45 a. C.).

Cicerone sposa nel 79 a. C. o qualche anno dopo, Terenzia, una giovane appartenente a una famiglia ricca e conosciuta negli ambienti aristocratici, parentela che gli sarà di grande vantaggio. Terenzia gli porta una dote di 480.000 sesterzi. Una vera fortuna considerando che per entrare a far parte dell’ordine equestre è necessaria una somma di 400.000 sesterzi. Lei possiede boschi e pascoli vicino alla villa di Tuscolo di Cicerone, e questo favorisce il loro incontro. Del passato di Terenzia non abbiamo notizie.

Dal loro matrimonio nascono due figli, Tullia e Marco Tullio. La figlia rimane in casa di Cicerone fino ai 15 anni, poi dopo tre matrimoni, poco più che trentenne, muore. Cicerone ne è addoloratissimo perché nutre per lei un affetto profondo, non c’è lettera dove, quando la nomina, non lo faccia con espressioni toccanti di affetto e tenerezza. Il figlio, a 14 anni, segue il padre quando questi va come governatore nella Cilicia. Durante la guerra civile segue le parti di Pompeo e si distingue come ufficiale di cavalleria. Dopo la sconfitta di Pompeo a Farsalo si trova col padre a Brindisi a invocare il perdono di Cesare.

La famiglia, come testimoniano molte sue lettere, è al centro degli affetti di Cicerone.

I due coniugi vivono per moltissimi anni in perfetta armonia, come possiamo giudicare dalle espressioni di tenerezza contenute in una parte della loro corrispondenza.

“Terenzia non era affatto una donna timida né dolce di carattere, bensì ambiziosa: come ci attesta lo stesso Cicerone, preferiva decisamente condividere con lui le preoccupazioni politiche che scaricargli addosso quelle della casa e della famiglia”, così la descrive lo scrittore greco Plutarco. Nell’epistolario lo stesso Cicerone rivela che sua moglie agisce in modo piuttosto indipendente per quanto riguarda il campo finanziario.

Ma seguiamo a grandi tappe la carriera politica di Cicerone: nel 75 è questore in Sicilia, nel 69 è edile, nel 66 pretore, nel 63 è console. Ma la questione più spinosa che da console deve affrontare è la congiura di Catilina, le cui trame sono sventate con successo da Cicerone che fa eseguire le condanne a morte dei congiurati. La repressione energica della congiura, se gli ha procurato in un primo tempo il titolo di “padre della patria”, poi gli causa gravissime amarezze. Infatti nel 58 il violento demagogo Publio Clodio, eletto tribuno della plebe, propone e fa approvare una legge nella quale è scritto: “Chi ha mandato alla morte un cittadino romano senza regolare processo, sia condannato all'esilio”. Nessun nome è indicato nella legge, ma sicomprende che si vuole colpire Cicerone, il quale, nella sua qualità di console (63) ha fatto giustiziare in prigione, dopo un processo sommario, i complici di Catilina. Cicerone non può più sperare aiuto nè dai consoli, uomini deboli e patteggianti con Clodio, nè da Pompeo, che non vuole neppur concedergli udienza, nè da Cesare, che cede alle pressioni di Clodio, infatti la lex Clodia de exilio Ciceronis è approvata con le seguenti disposizioni: l’esiliato deve trovarsi al difuori di un raggio di 500 miglia dai confini d'Italia; il suo patrimonio, la residenza sul Palatino e le ville suburbane sono confiscate; l’esiliato è passibile di pena di morte se trovato sul suolo d’Italia, e la medesima pena toccherebbe a chi gli desse rifugio.

Cicerone prende la via dell’esilio (dal marzo del 58 al settembre del 57). L’espulsione da Roma, dal Foro e da tutto ciò che ama, lo sconvolge. È un uomo ferito. Al momento d’imbarcarsi a Brindisi per andare in Grecia scrive una lettera a Terenzia e ai figli Tullia e Marco Tullio, prendendo da essi commiato con parole vibranti di tenerezza. Ne trascriviamo alcuni passi:

“Tullio a i suoi cari Terenzia, Tullia e Cicerone.

Io vi scrivo meno di quanto potrei per il fatto che se da una parte ogni momento della mia giornata è pieno d’infelicità, dall’altra, soprattutto quando o vi scrivo o leggo le vostre lettere, sono vinto dal pianto tanto che non riesco a sopportarlo. Oh, se fossi stato meno desideroso di vivere! […]Se queste sciagure sono stabilite per sempre, io non desidero altro che vederti il più presto possibile, cara Terenzia, vita mia, e morire tra le tue bracci poiché né gli dei che tu hai venerato con la massima devozione, né gli uomini al servizio dei quali ho dedicato la mia vita ci hanno ricompensato.[…] O me perduto, o me afflitto! Che cosa dovrei fare ora? Dovrei chiederti di venire, tu, donna malata e sfinita sia nel corpo che nello spirito? Non dovrei chiedertelo? Dovrei dunque stare senza di te? Penso di fare così: se c’è la speranza di un mio ritorno rafforzala e asseconda la vicenda, se invece, come io temo, è finita, in qualunque modo ti sia possibile fai in modo di venire da me. Sappi questo solo: se ti avrò non mi sembrerà di essere perduto del tutto[…]Che ne sarà della mia piccola Tullia? Che cosa farà il mio Cicerone? Potessi tenerlo sempre tra le mie braccia![…]..Non sono più in grado di scrivere oltre, il dolore me lo impedisce […].Cerca per quanto puoi di star bene e sii convinta che io sono turbato più profondamente dalla tua infelicità che dalla mia. O mia Terenzia, la più fedele e la migliore delle mogli e tu, mia carissima figlioletta, e tu, Cicerone, ultima mia speranza, addio. Brindisi 30 Aprile 58” (Ai familiari, XIV, 4).

È comprensibile la tristezza e l’angoscia di Cicerone: ha passato giorni terribili al pensiero che la sua casa sul Palatino e alcune ville in campagna sono state demolite, e che la sua famiglia è senza una casa, ospite del generoso amico Attico.

Il 4 settembre del 57, dopo sedici durissimi mesi, rientra a Roma con decreto del Senato, il clima non è dei più favorevoli. I triumviri (Cesare, Pompeo e Crasso) vogliono un suo sostegno politico attivo. Cicerone si mostra disposto a fornirlo. Si avvicina ai triumviri, non può fare altro. Nel 51 è costretto da una legge di Pompeo ad assumere in quanto ex console il governatorato di una provincia, gli tocca la Cilicia in Asia Minore. Lascia tutti i suoi affari economici in mano di Terenzia.

Durante il suo proconsolato in Cilicia il tono delle lettere a Terenzia rimane quello di chi è affezionato, ma certo più freddo e meno appassionato, e gli scritti spesso si risolvono in aride e rapide comunicazioni inerenti affari o comunque questioni economiche.

Quando torna in Italia alla fine del 50, la guerra civile sta per scoppiare. Si mette dalla parte di Pompeo, raggiunge i pompeiani in Grecia ma dopo la battaglia di Farsalo e la sconfitta dei pompeiani torna in Italia e rimane a Brindisi dove si trattiene quasi un anno con altri pompeiani, in attesa di avere da Cesare il permesso di avvicinarsi a Roma.

Cicerone scrive queste poche righe a Terenzia in cui traspare insieme allo sconforto per la difficile situazione in cui si trova (parteggiava per i pompeiani e li aveva finanziati impegnando tutti i suoi beni) e dalla quale non sa come uscirne, anche la freddezza dei rapporti con la moglie tanto che lui le dice in modo esplicito di non andare a Brindisi. I rapporti tra i due coniugi si deteriorano irrimediabilmente, non è facile riuscire a determinare le cause di una rottura dopo tanti anni di quasi perfetta armonia, si suppone incrinati per questione di denaro.

“Tullio a Terenzia

Ti vedo felice che io sia arrivato in Italia sano e salvo e vorrei che questa tua felicità possa durarare per lungo tempo. Ma temo che, sconvolto da un intimo dolore e da gravi affronti subiti, ho preso una decisione tale che non posso portare a termine facilmente. Perciò, aiutami, per quanto puoi. Come tu possa fare non mi viene in mente. Non c'è ragione che tu ti metta in viaggio in questa circostanza. Il viaggio è lungo e non sicuro; e non vedo come tu possa giovarmi, se verrai. Stai bene. Brindisi, 4 novembre 48”. (Ai Familiari, XIV, 12)

Dopo circa un mese Cicerone scrive alla moglie un’altra lettera. È preoccupato per la salute della amata figlia.

“Tullio a Terenzia

Fra i miei acerbissimi dolori, molto mi tormenta la malattia della nostra Tullia, né ho motivo di spendere conte tante parole; so con certezza infatti che ti sta tanto a cuore quanto a me. Riguardo al fatto che desiderate avermi più vicino, vedo che bisogna fare così e l’avrei fatto anche prima, ma molte circostanze me l’hanno impedito, e anche oggi non sono state rimosse. Ma aspetto una lettera da Attico, che vorrei mi facessi recapitare quanto prima. Fai in modo di star bene. Brindisi, 28 Novembre 48”. (Ai Familiari, XIV, 19).

Un’altra lettera alla moglie, nella quale da Terenzia egli si aspetta soprattutto notizie che lo riguardino.

“Tullio a Terenzia.

Se tu stai bene, me ne compiaccio, io sto bene. Vorrei che tu curassi la tua salute nel modo più scrupoloso. Infatti sono stato avvertito per lettera che tu all'improvviso hai avuto la febbre. Mi hai fatto cosa gradita informandomi della lettera di Cesare. Comportati così d’ora in poi, se ci sarà bisogno di qualcosa, se ci sarà qualche novità, troverai il modo di informarmi. Stai bene. Brindisi 2 giugno 47”. (Ai familiari, XIV, 8)

Riconciliatosi ormai con Cesare, Cicerone ormai può riprendere la sua vita. Con questo biglietto laconico impartisce sbrigativamente alcuni ordini di carattere pratico a Terenzia; notiamo soprattutto la freddezza della lettera rispetto alle prime, infatti siamo ormai vicini al divorzio. È l’ultima lettera scritta a Terenzia:

“Tullio a Terenzia

Penso di giungere nella villa di Muscolo il 7 ottobre, o il giorno successivo. Lì fai in modo che tutto sia pronto (infatti forse ci sarà con me un certo numero di persone e come penso ci fermeremo lì piuttosto a lungo. Se nella stanza da bagno non c’è la vasca da bagno, fai in modo che ci sia e allo stesso modo provvedi alle altre cose che sono necessarie al vitto e al benessere. Venosa, 30 ottobre 47”. (Ai familiari, XIV, 20)

Dopo trent’anni di matrimonio, Cicerone divorzia da Terenzia nel 46, accusandola di essere stata incurante degli interessi domestici e di avere aggravata la casa di debiti nel tempo in cui egli aveva dovuto vivere lontano dall’Italia, e da Roma durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo.

Terenzia a sua volta afferma che Cicerone la ripudia per sposarsi, come poi ha fatto, con una fanciulla assai ricca, di nome Publilia, della quale egli era tutore. Divorzierà poi anche da questa, che si è mostrata insensibile al suo dolore per la morte di Tullia. Rifiuterà nuove nozze. Terenzia si sposerà ancora tre volte.

Dall’insieme delle lettere veniamo conoscenza di aspetti privati e intimi di cui altrimenti saremmo rimasti all’oscuro, che deludono alcuni suoi ferventi ammiratori come Petrarca, il quale dopo il ritrovamento di una parte dell’Epistolario, scrive due lettere immaginarie a Cicerone lasciando trasparire tutta la delusione per le miserie umane che emergono delle sue missive alla luce delle quali l’Arpinate gli sembrava essere stato maestro migliore per gli altri che per se stesso. Non vogliamo qui esprimere un giudizio morale su Cicerone, ma considerarlo un testimone significativo dei suoi tempi, oltre che vedere nei suoi sfoghi epistolari un documento umano e psicologico, anche se vi affiorano debolezze, indecisioni, contraddizioni e cedimenti a compromessi.

 

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