di Maria Pellegrini 

In questo spazio in cui ci occupiamo di fatti, personaggi influenti, imperatori e donne celebri dell’antica Roma, è venuto il momento di parlare di un favolista ex schiavo, venuto a Roma dalla Tracia, di nome Fedro. Generazioni di studenti alle prese con le prime esercitazioni di latino hanno tradotto i versi della sua favola “Lupus et agnus”:

                                   Il lupo e l’agnello

 

      Un  lupo e un agnello erano giunti allo stesso rivo.

      spinti dalla sete. Il lupo stava più in alto

      l’agnello molto più in basso. Allora quel malvagio

      eccitato dalla gola insaziabile, cerca una causa di litigio.

      “Perché - disse - hai reso torbida l’acqua a me

      che bevo?” L’agnello tremando spaventato replicò:

      “Come potrei, di grazia, fare ciò di cui ti lamenti, o lupo?

      L’acqua scorre da te e poi scende alle mie labbra!”

      Quello allora, sconfitto dalla forza della verità:

      “Sei mesi fa - aggiunse - hai parlato male di me!”

      Rispose l’agnello: “Veramente non ero ancora nato!”

      “Per Ercole! Allora fu tuo padre a parlare male di me!”

      E così, lo afferra e lo sbrana dandogli un’ingiusta morte.

      Questa favola è scritta per tutti quegli uomini

      che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.

Nel tremante agnello e nell’arrogante lupo è facile scorgere l’allegoria del debole oppresso e del potente che vuole giustificarsi con il diritto. La riflessione morale, posta in chiusura, esprime l’amara e sconsolata visione che Fedro ha della società dominata dall’arbitrio dei potenti. In questa lotta i deboli sono destinati a soccombere e sapendo di dover soccombere, non rimane loro che l’amara rassegnazione a una vita che non offre loro alcuna possibilità di reazione, nonostante qualche raro e spesso effimero tentativo.

Il tema della prepotenza camuffata da legalità è preponderante nell’opera di Fedro, che ha messo al primo posto della sua raccolta la favola “Il lupo e l’agnello”, maschere eterne rispettivamente della prevaricarivazione e dell’innocenza.

Le sfortunate esperienze personali dell’autore, un ex schiavo, hanno contribuito alla scoperta di una triste verità: alla sofferenza, all’umiliazione, all’accettazione rassegnata del proprio destino, per gli oppressi e i deboli si aggiunge l’impossibilità di una denuncia palese. Il ricorso alla favola è una necessità perché come egli afferma: “La schiavitù avrebbe molto da dire ma non osa, e apre il suo cuore in brevi favole”. Fedro ha tentato di riscattare la propria vita oscura e dolorosa attraverso la poesia perché la poesia e la cultura sono gli unici beni durevoli. Fedro è un uomo deluso, ferito, fraternamente vicino a quell’asino destinato a essere percosso da vivo e da morto, il soggetto di un’altra sua favola:

                         L’asino e i sacerdoti

 

      Chi nasce sventurato non solo trascina

      una vita miserabile ma il destino avverso

      lo perseguita anche dopo la morte.

      I sacerdoti di Cibele erano soliti condurre

      per la questua un asino barcollante per i pesi.

      Morì per la fatica e le frustate.

      A chi chiedeva che fine avesse fatto

      il loro beniamino, risposero: “Pensava

      che una volta morto sarebbe stato in pace;

      invece riceve botte anche da morto”.

Ma chi è Fedro? Nel quadro della letteratura della prima età imperiale è uno dei pochissimi autori di nascita non libera. Nato in Tracia intorno al 15 a.C., fu portato a Roma come schiavo in casa dell’imperatore Augusto e poiché nei manoscritti delle sue opere è citato come “libertus Augusti” si suppone che sia stato da lui affrancato. In seguito passò alle dipendenze di Tiberio, ma offese nelle sue favole, con sospette allusioni, Seiano, il potente ministro di Tiberio, perciò subì una condanna che lo costrinse a vivere in povertà umiliato e dimenticato dai suoi contemporanei, tuttavia continuò a scrivere sotto i successivi imperatori Caligola e Claudio.  Morì intorno al 50 d.C. Della sua opera restano 93 favole in versi, suddivise in cinque libri.

La favola, fin dai tempi più remoti è il riflesso dei desideri, dei dolori, dei sentimenti e dei bisogni elementari del popolo, in antitesi alle leggende eroiche e divine che rispecchiano gli ideali delle classi colte. Gli autori di favole sono gli eredi di una tradizione orale lunga e consolidata e i loro meriti non sono nell’inventiva ma nella trascrizione e nell’elaborazione letteraria di quella tradizione. In Grecia è uno schiavo, Esopo, a portare a dignità letteraria la favola (VI sec. a. C.); nel mondo latino è un ex schiavo, Fedro (I sec. d. C), a concepire la favola come genere letterario autonomo.

Fedro è uno scrittore solo apparentemente elementare, dietro la semplicità di ogni favola è rappresentato un piccolo dramma completo pur nella sua brevità, senza pathos drammatico o eccessiva commozione o turbamento. C’è dolore autentico e viscerale per i mali che affliggono quotidianamente gli uomini e gli animali e un sorriso indulgente per quel mondo costellato di piccole astuzie, di cattiverie spicciole, di rivalità, di sentimenti semplici di uomini senza nome e senza tempo ai quali egli guarda con simpatia e umana comprensione ed elargisce consigli dettati da antica saggezza e moderazione.

Per tradizione, caratteristica della favola è la brevità: Fedro si attiene a questo canone. La felicità del risultato, però, dipende dal suo stile, un’equilibrata fusione di linguaggio vivo della conversazione (sermo familiaris), di satira, di mancanza di espressione sia aulica sia volgare. Stile piano e moderato, ma talvolta non privo di espressioni colorite e toni incisivi. La scelta della forma poetica manifesta l’aspirazione a creare un genere letterario pari in dignità agli altri.

I personaggi delle favole di questo ex schiavo sono animali, usati per tratteggiare vizi e virtù applicabili anche all’uomo, o per rappresentare categorie sociali. Non mancano però favole che hanno come protagonisti gli uomini con spunti tratti dalla realtà contemporanea. Sotto la maschera degli animali parlanti, egli colpisce duramente l’intera società e i vizi degli umani. La prepotenza, l’astuzia, l’ipocrisia, l’ingordigia, la vanagloria, la ferocia, la crudeltà, la vendetta trovano espressione allegorica nel leone, nel lupo, nella volpe, nell’aquila, nel pavone, nel corvo, nella pantera, nel coccodrillo, nel serpente: non c’è animale domestico e selvatico dei più comuni che non figuri nella ricca galleria di Fedro a rappresentare un certo tipo di umanità.

Gli animali, e così gli uomini, hanno imparato la difficile arte della sopravvivenza che spesso porta a ingannare per difesa, con i pochi mezzi a disposizione e a ricambiare le offese, come Fedro suggerisce in un’altra sua favola:

                                  La volpe e la cicogna

 

      Non si devere recar danno ad alcuno, ma la favola insegna

      che se qualcuno ci reca offesa va ripagato

      con la stessa moneta. Si racconta che la volpe invitò per prima

      una cicogna a cena, e le servì su un largo piatto una brodaglia

      che quella, nonostante la fame, non potè gustare in alcun modo

      A sua volta la cicogna, dovendo contraccambiare l’invito della volpe,

      mise del cibo sminuzzato in un fiasco dal lungo collo;

      la cicogna inserendo il becco si sazia         ma la convitata

      muore di fame. A questa, che inutilmente cercava di lambire

      il collo del fiasco, la cicogna disse: “Ognuno deve

      saper sopportare in pace le conseguenze dei propri esempi.”

La povertà e le difficoltà del vivere uccidono la solidarietà e spingono al servilismo verso i potenti. Anche nel regno degli umili non sempre dimorano la pietà e la bontà, ma il sopruso, l’inganno, l’egoismo, dettati dalla necessità di bisogni primari o dalla stanchezza di un duro lavoro. L’inganno è anche con se stessi: la volpe, di fronte all’uva troppo in alto per essere da lei raggiunta, in difesa della propria impotenza esclama che non è matura:

                                  La volpe e l’uva

 

      Spinta dalla fame una volpe tentava in ogni modo di cogliere,

      saltando con tutte le sue forze, l’uva su un’alta pergola.

      Non potendo toccarla, mentre si allontanava commentò:

      “Non è ancora matura, non voglio raccoglierla acerba.”

      Coloro che svalutano a parole quanto non sono in grado di fare

      devono considerare per se stessi questo esempio.

 

Fedro ha sentito la favola come espressione soprattutto del sentimento degli schiavi, del modo in cui essi interpretano la vita. Il velo simbolico nasce anche da una necessità della condizione servile: gli schiavi non osano esprimere direttamente e apertamente la verità.

Nelle sentenze che concludono le favole si avverte una tensione morale che nessuno più possedeva né avrebbe posseduto, fino a che un nuovo slancio morale non avesse animato le coscienze: quello della “sciagurata superstizione” di cui parla Tacito, cioè del Cristianesimo, dapprima perseguitato, infine vincente.

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