di Maria Pellegrini

In questi giorni nefasti nei quali i fatti avvenuti a Parigi hanno profondamente scosso tutta l’opinione pubblica e ciascuno di noi, la prima reazione è stata quella della paura, di rifugiarsi nelle proprie case, lasciare agli esperti di politica e geopolitica e ai sociologi il compito di scrivere, dibattere, cercare di capire, ma subito c’è stata una doverosa reazione, quella di continuare la nostra vita e coltivare i nostri interessi, senza però ignorare la gravità di quello che sta accadendo. Tornare a interrogare i fatti storici della nostra civiltà non può essere considerato un esercizio inutile e inopportuno in questi giorni in cui l’orrore sembra prevalere sulla civiltà.

Abbiamo sentito spesso pronunciare l’aggettivo “barbari” nei confronti dei feroci assassini di cittadini inermi a Parigi e diffondersi un’istintiva paura, e torna alla mente la paura che colse i Romani quando furono assaliti dai “barbari” Galli. Con il termine “barbari” essi indicavano gli altri popoli, diversi per lingua, ma soprattutto per cultura e mentalità, per il loro diverso modo di vivere e di ragionare. L’idea del barbaro si diffuse in Roma nel IV secolo a. C. in riferimento ai Galli. Questa popolazione celtica, che fin dal VI secolo a. C. aveva incominciato a mettere piede al di qua delle Alpi, si affacciò propriamente nell’universo di Roma con la spedizione guidata da Brenno nel 390 a.C., anno al quale risale la “paura gallica” destinata a durare fino al I secolo a. C., quando ormai l’assimilazione di questo popolo era in via di compimento.

Verso il 390 a. C. una tribù gallica, i Galli senoni, forte di alcune decine di migliaia di uomini al comando di Brenno, giunse nell’Etruria centrale e cinse d’assedio la città di Chiusi. Il popolo di Chiusi si rivolse per aiuti al govermo di Roma che inviò ai Galli un’ambasciata di tre rappresentanti della nobile stirpe dei Fabi con l’incarico di trattare un accordo. Ma gli ambasciatori non riuscirono a portare a termine il loro compito: rotta la neutralità, si misero a fianco di Chiusi e uno di essi uccise perfino un capo dei Galli, i quali ruppero le trattative e chiesero a Roma di consegnare i colpevoli. Il governo romano si rifiutò. I Galli irritati tolsero l’assedio e mossero rapidamente su Roma dove fu ordinata la leva in massa e si misero in armi circa quaranta mila uomini per fermare il nemico che, armato di enormi scudi e di lunghe spade, gettava grida selvagge e incuteva terrore anche per quegli elmi muniti di corna che copriva il loro capo.

I Galli furono costantemente rappresentati con un’accentuazione della corporatura gigantesca, della capigliatura incolta, delle vesti e armi inusitate, e temibili per la consuetudine di praticare sacrifici umani e di essere tagliatori di teste. Polibio, lo storico greco del II secolo a.C., così li descrive: “Terribili erano l’aspetto e i movimenti di questi uomini in battaglia, nudi in prima fila, ammirabili per la loro vigorosa giovinezza e la bellezza dei tratti. Tutti quelli che formavano le prime linee erano parati di torques e di bracciali d’oro”. E Diodoro Siculo, storico greco di Sicilia del I secolo a. C.: “I Galli sono di taglia grande, la loro carne è molle e bianca; i capelli sono biondi non solo di natura, ma si industriano ancora a schiarire la tonalità naturale di questo colore lavandoli continuamente all’acqua di calce. Li rialzano dalla fronte verso la sommità del capo e verso la nuca; con queste operazioni i loro capelli si ispessiscono al punto da somigliare a criniere di cavalli. Alcuni si radono la barba, altri la lasciano crescere con moderazione; i nobili conservano nude le guance ma portano dei baffi lunghi e pendenti al punto che coprono loro la bocca. Si vestono con abiti stravaganti, delle tuniche colorate dove si manifestano tutti i colori e dei pantaloni che chiamano braghe. Vi agganciano sopra dei sai rigati di stoffa, a pelo lungo di inverno, e lisci d’estate, a fitti quadrettino colorati di tutte le gradazioni”. E Strabone, geografo greco del I secolo a. C.:“Alla franchezza, alla foga si uniscono a queste genti il difetto di senso comune, la fanfaronata, il gusto smodato per gli ornamenti, infatti portano dei gioielli d’oro, catene attorno al collo, anelli attorno alle braccia e ai polsi e quelli che godono di prerogative onorifiche, portano abiti di stoffe colorate e ricamate d’oro”.

Con una sola battaglia i Romani subirono una disastrosa sconfitta, il 18 luglio del 390 a. C. sulle rive del fiume Allia, piccolo affluente del Tevere non lontano dalla città di Fidene. La data 390 a. C. è fissata dallo storico romano Livio, i greci Polibio e Diodoro attestano l’anno 387; sul giorno, il 18 luglio, non ci sono dubbi perché fu chiamato dies alliensis considerato giorno di lutto nazionale e scritto nel calendario come “nefasto”. I romani furono vergognosamente sconfitti. Secondo lo storico Livio, d’età imperiale: “nulla vi fu che ricordasse il valore romano né nei comandanti, né nei soldati. Tanto fu il loro terrore che l’unico pensiero era rivolto alla fuga […] non avevano per nulla tentato di contrastare quel nemico ignoto, molti caddero colpiti alle spalle perché in fuga […] quelli che cercarono scampo gettandosi nel Tevere dopo aver abbandonato le armi, inesperti nel nuoto o appesantiti dalla lorica e dalle altre parti della corazza, furono inghiottiti dalla corrente”.

L’esercito romano sconfitto si disperse nelle vicinanze, solo una piccola parte tornò a Roma. Nella città regnava una spaventosa confusione. Molti lasciavano la città dirigendosi verso le città vicine. Alcuni valorosi, guidati da giovani membri del senato si rinchiusero nel Campidoglio, fortezza e santuario della città, dopo aver inviato donne e bambini nelle città vicine, sopratutto Caere, dove si rifugiarono anche le Vestali con gli arredi sacri della città. I Galli trovando Roma deserta la saccheggiarono e incendiarono, gli abitanti rimasti furono massacrati. I vecchi senatori non vollero abbandonare la città. La leggenda riporta un episodio curioso sulla fine dei vecchi senatori. I Galli furono sorpresi nel trovare quelle figure immobili sedute nei loro seggi d’avorio. Scambiandoli per statue uno dei Galli toccò la lunga barba a un senatore che reagì colpendolo con il suo scettro. Fu allora l’inizio del massacro. Furono uccisi tutti.

I Galli si diressero al Campidoglio, ma fallì il loro tentativo di conquistarlo d’assalto a causa delle ripide pendici del colle.

A questo punto, secondo la fonti romane, si inserisce la leggenda delle oche del Campidoglio. I Galli si diressero nottetempo verso la rocca, dove si trovava l’ultima resistenza romana a difesa dei templi e dell’oro della città, con l’intenzione di cogliere di sorpresa i difensori passando per un passaggio segreto. Gli assediati furono svegliati dallo starnazzare delle oche - unici animali superstiti alla fame degli assediati perché sacre a Giunone - in tempo per respingere l’assalto dei Galli. Con molta probabilità si tratta di leggende (che sono state tramandate con varianti secondo le diverse fonti) formatesi successivamente, ma a questo episodio sicuramente leggendario si riferiva una festività romana, che cadeva il 3 agosto, durante la quale i cani venivano crocefissi, perché non avevano avvertito della presenza del nemico sotto il colle, e le oche erano portate in processione ed onorate come salvatrici della patria.

L’assedio del Campidoglio durò setti mesi. Gli assediati soffrivano la fame, ma anche la situazione dei Galli non era delle migliori. La mancanza di rifornimenti e la calura estiva favorì lo sviluppo di malattie, perciò quando i Romani proposero trattative di pace, essi accettarono. Fu concordato  che i Galli avrebbero lasciato il territorio romano dietro il pagamento di mille libbre d’oro (una libbra = gr. 322,53), una quantità enorme, forse riportata dagli annalisti romani con una certa esagerazione. I Romani dapprima accettarono, poi quando qualcuno fra loro protestò perché i pesi erano truccati, Brenno sfoderò la sua pesante spada e la aggiunse sul piatto dei pesi (da pareggiare con oro), rendendo quindi il calcolo ancora più iniquo, ed esclamando Vae victis, “Guai ai vinti”, per significare che le condizioni di resa le dettano i vincitori sulla sola base del diritto del più forte. A questo punto, molto probabilmente, ottenuto quanto richiesto, i Galli abbandonarono la città per tornare alle loro terre; ma durante la marcia furo attaccati dall’esercito romano che si era riorganizzato fuori città mentre c’era l’assedio al Campidoglio, e furono battuti  duranti gli scontri diretti dall’eroe della guerra di Veio, Furio Camillo. La tradizione romana tramanda però una versione più leggendaria: Marco Furio Camillo, saputo delle richieste di riscatto in oro, mentre i Romani chiedevano tempo per procurarsi l’oro che mancava, raggiunse Roma con il suo esercito. Una volta di fronte a Brenno, gli mostrò la sua spada e gli urlò: Non auro, sed ferro, recuperanda est patria, “Non con l’oro, ma con il ferro, si riscatta la patria”. A seguito di quest’episodio, secondo questa tradizione, i Galli furono costretti ad allontanarsi. Alla guida dei soldati romani c’era Furio Camillo che fu insignito del titolo di “Padre della Patria”.

Le varie leggende miravano a stendere un velo sulla gravità dello scacco, che mise per la prima volta nel 390 a.C. i Romani di fronte a quel vasto mondo di popoli sconosciuti.

In seguito al saccheggio i Romani provvidero a ricostruire le mura. La battaglia di Allias aveva messo in luce anche la deficienza dell’armamento e della tattica militare, e ciò fu uno stimolo per una riforma dell’organizzazione militare. Tutti i vecchi nemici, Etruschi, Equi, Volsci cercarono di abbattere il predominio romano.

Il trauma del saccheggio gallico ebbe ripercussioni politiche e psicologiche, che per alcuni anni destabilizzarono alleanze e conquiste che Roma aveva acquisito e la guerra fu l’arma principale per ottenere  l’egemonia nel Lazio. Circa 50 anni durò la lotta di Roma per restaurare l’antico prestigio e posero le basi per la conquista accompagnata dal processo di romanizzazione che fu alla base della lunga durata dello stato repubblicano, e poi imperiale, multietnico e multinazionale e della sua secolare stabilità. Dopo l’affronto dei Galli, il suolo di Roma non sarebbe più stato percorso da piedi nemici per ottocento anni fino al sacco di Roma dei Visigoti di Alarico del 410 d.C.

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