di Maria Pellegrini

Il ruolo della donna nella società romana in età arcaica e repubblicana è caratterizzato da una quasi generalizzata subalternità: la donna ideale era quella intenta a filare la lana, preparare le vesti per la famiglia, partorire quanti più figli possibile, vegliare sul focolare domestico, attenersi al “mos maiorum” (il costume degli avi), attenta ai propri doveri di sposa e di madre.

Malgrado gli antichi divieti imposti alla libertà e all’indipendenza delle donne, così com’erano stati predicati e applicati da Catone il Censore, e, in tempi più recenti espressi da una secca frase di Cicerone: “Se gli schiavi e le donne disobbediscono, è l’anarchia”, con il trascorrere degli anni, pur senza affacciarsi apertamente sulla scena politica, le donne erano tuttavia riuscite ad acquistare libertà impensabili in età arcaica; nel corso del I secolo a.C. nuovi tipi di comportamento lo dimostrano:  la spregiudicata Clodia (la Lesbia amante e musa di Catullo), l’intrigante e volitiva Fulvia (moglie successivamente di Clodio, Curione, Antonio). Erano lontani i tempi in cui una matrona romana poteva essere processata e condannata per impudicizia. I liberi costumi di una donna rappresentavano ancora, ma non sempre, un motivo di “censura morale” anche aspra, ma di solito non venivano più penalmente perseguiti.

Il relativo processo di liberalizzazione del comportamento femminile presto subì una forte accelerazione. Fra i massacri, le devastazioni, le proscrizioni delle guerre civili, le ricchezze rapidamente accumulate e le altre ancor più rapidamente dilapidate o distrutte, i costumi tradizionali non potevano che venire sempre più profondamente mutati: le matrone romane davano sempre più apertamente dimostrazione della loro indipendenza, fino a intrattenere rapporti non solo personali, ma anche politici veri e propri con uomini di spicco della tumultuosa scena politica romana.

L’orizzonte dell’immagine femminile si farà più buio in epoca imperiale, soprattutto nelle opere dei poeti Giovenale e Marziale: il primo scrive la più lunga e violenta delle sue satire proprio contro le donne, la loro corruzione e frivolezza, il loro piacere di assistere ai sanguinosi spettacoli circensi, la diseducazione dei figli, la sottomissione dei mariti. Marziale vorrà essere più equanime mettendo alla berlina sia i vizi degli uomini che delle donne, ma i suoi epigrammi pullulano di femmine dedite a giochi erotici di ordinaria quotidianità. In entrambi gli scrittori si nota però un’ implacabile misoginia da cui sono affetti. Ciò che li irrita è soprattutto lo spazio di libertà conquistato dalla donna a scapito di un uomo sempre più debole che non riesce ad arginare, come accadeva in passato, quell’energia vitale femminile che incute loro inquietudine e timore.

Cornelia (189-110 a. C.), madre dei Gracchi e l’imperatrice Messalina (25-48 d.C.) sono divenute sinonimi di queste due tipologie femminili: Cornelia rappresenta gli ideali repubblicani che vedevano nella madre amorevole, custode della famiglia un modello per tutte le donne; in Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, si sono identificate tutte le caratteristiche più negative: inganni, lussuria intrighi. Entrambe sono figure emblematiche di due epoche contrapposte della società romana: la repubblicana e l’imperiale. In Cornelia si vede l’ideale di saggezza, prudenza, fedeltà; con Messalina siamo nel tempo del lusso e degli eccessi in un’età in cui le enormi ricchezze avevano corrotto gli ideali e la semplicità repubblicana.

Ma di entrambe tracciamone ora un breve profilo biografico.

Cornelia, figlia di Scipione Africano, donna di grande cultura e di forte carattere, rimasta vedova molto presto, volle curare personalmente o con maestri da lei scelti, la formazione dei suoi figli, decidendo di non risposarsi, e rifiutando persino la richiesta di matrimonio di Tolomeo VII,  re dell'Egitto. La tradizione è concorde nel celebrare la cura che Cornelia dedicò all'educazione di Tiberio, Gaio e Sempronia, i tre figli superstiti dei dodici che aveva generato, e ne fa l’esempio della madre ideale romana. Nella biografia di Tiberio, scritta da Plutarco, si legge: “Cornelia  allevò i suoi figli con tanta saggezza che la loro virtù fu stimata frutto dell'educazione ricevuta più che dono di natura”.

Cornelia esercitò anche una notevole influenza sull’attività politica dei figli, quantomeno nel senso che li incitò a mostrarsi degni del padre e a compiere azioni degne di lode al servizio dello Stato. Si tramanda che si lamentava di essere conosciuta come suocera di Scipione Emiliano e non come madre dei Gracchi: la figlia Sempronia aveva infatti sposato l'Emiliano.

La forza d'animo di Cornelia si manifestò anche dopo la morte del secondo figlio, Gaio. Ritiratasi a Miseno, non si chiuse in un cupo dolore, ma continuò a comportarsi come la donna colta e raffinata di sempre, che riceveva ospiti, frequentava letterati, rasserenata dai valori dello spirito e della cultura, e dalla frequentazione di spiriti illuminati.

Il ritratto più noto di Cornelia lo leggiamo nei “Fatti e detti memorabili” di  Valerio Massimo:

“Cornelia, madre dei Gracchi, fu degna di grande lode. Quando una donna romana le mostrò alcuni suoi ornamenti, aggiungendo queste parole: ‘mio marito mi donò questi anelli, questi bracciali, queste cose preziose, ho anche assai belle vesti, che subito ti mostrerò. Cornelia con animo tranquillo ascoltò le parole di quella vana donna e lodò quei preziosi ornamenti. Allora la superba matrona la pregò di mostrarle i suoi ornamenti. Cornelia con volto sereno chiamò Caio e Tiberio. Quando  quelli entrarono,  Cornelia li annunciò con queste parole: questi sono i miei gioielli”.

Ma ricordiamo anche le parole di Seneca. Nel discorso consolatorio rivolto a Marcia che aveva perduto un figlio, cita Cornelia, quale esempio di coraggiosa rassegnazione per la morte dei figli dei quali era orgogliosa: “Vide uccisi e insepolti Tiberio e Caio, nei quali anche chi non ammette fossero buoni, dovrà riconoscere due uomini grandi. Ella tuttavia, a coloro che la consolavano e la dicevano infelice rispondeva che non poteva sentirsi  infelice lei che aveva dato la luce ai Gracchi.”

Contrapposto al ritratto virtuoso di Cornelia è l’impietosa descrizione della insaziabile lussuria di Messalina, sposa dell’imperatore Claudio, fatta dal poeta Giovenale in una famosa satira contro le donne:

“Ora  ascolta che cosa Claudio abbia dovuto sopportare. Appena sua moglie si accorgeva che lo sposo dormiva, osando preferire al talamo del Palazzo una stuoia, l’Augusta meretrice si copriva d’un notturno cappuccio, usciva accompagnata da non più che una sola ancella. Ed ecco, celando la sua nera chioma con una parrucca bionda, entrava in un afoso postribolo dai logori cuscini, in una stanzuccia vuota a lei riservata; allora nuda e con i capezzoli indorati si prostituiva sotto il mentito nome di Licisca, e mostrava il ventre che ti aveva generato, o nobile Britannico. Mielosa accoglieva i clienti, chiedeva i denari e sdraiata assorbiva  senza interruzione i colpi di tutti. Poi quando il ruffiano  mandava via le sue ragazze, anche lei se ne andava tristemente e tuttavia per quanto poteva chiudeva ultima la stanza,  ancora ardente per il lussurioso prurito dell’infaticabile vulva, infine si allontanava sfiancata dai maschi ma non ancora sazia, e disgustosa per le guance lorde, sudicia di fumo e di lucerna,  portava nel letto imperiale il puzzo del bordello”.

Se la degradazione morale e sessuale di Messalina si fosse spinta a tanto, non è dato sapere con certezza, ma Svetonio, Tacito e Cassio Dione concordano nel raffigurarla dominata dai tre vizi tipici della tirannide: lussuria, crudeltà, avidità. Se è vero che i versi di Giovenale contribuirono a creare nell’immaginario dei posteri la figura di Messalina come stereotipo della donna crudele e dissoluta, è altrettanto vero che Giovenale non aveva fatto altro che offrire di lei una potente rappresentazione artistica rifacendosi a voci già diffuse. Plinio il Vecchio, molti anni  prima che Giovenale scrivesse quei terribili versi, aveva anch’egli spudoratamente narrato di una regale vittoria riportata dall’imperatrice: dopo aver sfidato la più famosa cortigiana di Roma in una singolare gara di resistenza, Messalina aveva superato la  professionista e avuto la palma della vittoria per essersi sottoposta a ben venticinque amplessi in una sola notte.

Dietro ogni personaggio consacrato dalla tradizione e divenuto eroe negativo o positivo, c’è sicuramente dell’esagerazione.

La  famiglia di Messalina era tra le più nobili di Roma, risalente cioè, sia per parte di padre che di madre, ad Augusto stesso. Messalina era, dunque, una genuina pronipote di Augusto. Passò l’infanzia alla corte di Caligola. A sedici anni divenne  la terza moglie di Claudio, già sopra i cinquant’anni, da cui ebbe due figli, Ottavia e Britannico. La tradizione ci ha lasciato un ritratto di donna crudele, dispotica e perversa. Fu sicuramente capricciosa e senza scrupoli, ma forse lottò nel difficile ambiente di corte e in un’epoca violenta, usando la debolezza del marito per acquistare influenza, ma senza esercitare un vero potere. Mal sopportata a corte  si alleò con alcuni aristocratici ostili all’imperatore. Cercò di controllare il sistema degli appalti pubblici e fece eliminare i suoi avversari.

Per quanto viziosa e terribile possa essere stata la condotta di Messalina, certamente non si discostò di molto da quella di tante altre matrone dell’aristocrazia romana dedite all’adulterio, molte delle quali, come ha scritto Svetonio, “per sfuggire ai rigori della legge rinunciavano alla loro dignità e ai loro diritti e preferivano farsi schedare ufficialmente come prostitute”.

L’occasione propizia per la sua eliminazione fu la folle passione per l’aristocratico Caio Silio, che da Messalina fu costretto a divorziare dalla moglie. Silio ben consapevole del pericolo di sfidare il potere dell’imperatore, sperò almeno di ottenere da questo amore onori e glorie future. Messalina lo colmava di doni, e scandalizzando tutta Roma si mostrava sempre al suo fianco, andava a trovarlo nella sua casa con tutto il proprio seguito. Racconta Tacito: “Si arrivò a tal punto che gli schiavi, i liberti, tutta la corte dell’imperatore si radunavano presso l’amante come se il trono fosse già passato a lui”. Silio, temendo che tanta ostentazione apparisse irriguardosa verso l’imperatore e lo portasse alla rovina, decise osare il tutto per tutto sposando Messalina e adottando l’erede al trono, il giovane Britannico. Le nozze furono celebrate in gran pompa e con tutta la solennità dei riti nuziali mentre l’imperatore si trovava a Ostia, dove nessuno osò informarlo di quanto stava accadendo. Messalina si era avvalsa di una legge del diritto romano che prevedeva il ripudio unilaterale anche da parte della sola moglie, e ora si aspettava che Claudio, venuto a conoscenza del fatto, divorziasse da lei.

Tutta questa allucinante vicenda, che Tacito stesso afferma potrebbe apparire “una favola” non si comprende, se non supponendo che Messalina progettasse una specie di “colpo di stato”, ritenendo che Silio appartenente a una famiglia aristocratica, le avrebbe assicurato l’appoggio della nobiltà senatoria. Questo matrimonio sarebbe quindi stato il culmine di una cospirazione volta a rovesciare Claudio e sostituirlo appunto con Caio Silio.

Claudio temendo per il pericolo cui egli stesso era esposto, si affrettò a fare giustizia. Silio, condotto davanti al tribunale, non tentò neppure di difendersi: chiese la morte immediata, come pure molti altri illustri uomini considerati suoi sostenitori.

Messalina si era rifugiata con sua madre in una villa suburbana. Sua madre le consigliò di togliersi la vita invece di aspettare il carnefice. Soltanto quando vide entrare i sicari, arresa al suo destino, prese il pugnale, lo portò tremante alla gola, poi al petto, ma il coraggio le mancò. Allora uno degli uomini sopraggiunti la trafisse. Il corpo fu lasciato alla madre.

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