di Maria Pellegrini

La vergogna del muro che l’Ungheria ha deciso di alzare per evitare l’ingresso di uomini, donne e bambini che fuggono da guerre, carestie, dittature, fame, cioè da morte sicura, mi fa pensare alle tante mura innalzate in tutto il mondo e in tutte le epoche per difendersi da nemici, mura che evocano immagini di lunghi assedi e di sanguinose lotte tra assedianti e assediati fino alla quasi sempre inevitabile resa di quanti dagli spalti tentano di impedire che si apra una breccia o si dia la scalata a quelle protezioni di pietra provvidenzialmente costruite dai loro antenati.

L’intelligenza umana e il progresso tecnologico, messi al servizio dell’odio e delle brutali necessità della guerra resero nel lungo corso degli anni sempre più sanguinosi gli assedi. Le fortificazioni murarie furono rafforzate con fossati, torri, bastioni, porte corazzate; per renderne vana la resistenza si costruirono sofisticate macchine belliche: arieti, falci, torre mobili, scale, testuggini; per respingere i soldati che ne tentavano la scalata, o, viceversa, per uccidere i difensori disposti sui bastioni o sulle torrette si perfezionarono temibili congegni per il lancio di palle di pietra e di piombo, o di frecce: catapulte, onagri, scorpioni, balestre.

Quanto più le fortificazioni di una città o di un accampamento si dimostrarono inespugnabili, tanto più gli uomini si accanirono nella ricerca dei mezzi per abbatterle o per penetrare al loro interno per mezzo di torri costruite più alte delle mura o attraverso cunicoli sotterranei. Suggerisce Vegezio nel suo libro Arte della guerra:

 

“Una volta avvicinate le torri, i frombolieri con le pietre, gli arcieri con i dardi, i balestrieri o gli arcobalestrieri con le frecce, i lanciatori con le piombate e con le armi da lancio costringono i difensori a ritirarsi dalle mura; successivamente, appoggiate le scale alle mura stesse, entrano nella città”. (IV, 21)

 

e ancora

 

“Per conquistare una città vi è anche un mezzo sotterraneo, chiamato cunicolo, dal nome dei conigli che scavano tane sotto terra e vi si celano. [...] Prodotta un'ampia buca, si crea un passaggio sotterraneo attraverso il quale sia possibile introdursi nella città per espugnarla. (IV, 25)

 

E quando nonostante gli sforzi, gli assalitori non riuscivano nell’intento, essi costrinsero i difensori alla resa per fame impedendo il passaggio dei rifornimenti alimentari. Citiamo in proposito ancora Vegezio:

“Bisogna sapere che vi sono due modi di porre un assedio: il primo si attua quando il nemico, disposti i presidi in luoghi favorevoli, attacca gli assediati con continui assalti. Il secondo quando impedisce il rifornimento d’acqua o spera che gli assediati si arrendano per fame, avendo interrotto il transito dei viveri. In questo modo, stando al sicuro e in attesa, si logora il nemico”.(IV, XXIV)

La storia e la poesia epica ci hanno tramandato eroiche imprese in difesa delle mura di una città. Sono a tutti note le vicende dell’omerica Troia, e della sua distruzione resa possibile, secondo la leggenda,  dopo nove anni di guerra con lo stratagemma del cavallo di legno ideato dall’astuto Ulisse perché le mura di Troia erano possenti e maestose tanto che la tradizione le voleva costruite con l’aiuto di due divinità, Apollo e Poseidone.

Mito, storia, poesia si intrecciano nel racconto omerico dell’ultimo anno di guerra scatenata dai principi greci coalizzatisi contro i troiani per vendicare l’offesa arrecata a Menelao, re di Sparta, dal troiano Paride, seduttore della bellissima sposa Elena. Nove anni di scontri, di stragi, di ambascerie, di duelli, di crudeltà che ebbero  il loro epilogo con la morte di Ettore per mano di Achille. Ma l’ira dell’eroe greco non si placò con l’uccisione dell’avversario, egli volle fare scempio del suo cadavere, trascinandolo legato per i piedi in un macabro carosello intorno alle mura della città ancora inespugnate, alla guida del suo cocchio e sotto lo sguardo dei suoi familiari. Ecuba, la madre, dalle mura getta via il velo e si strappa i capelli, il padre e tutto il popolo piange.

 

Con la morte di Ettore - evento che lascia presagire il destino di Troia - si chiude il poema omerico. Dopo quasi mille anni il poeta Virgilio riprende il filo del racconto partendo proprio dalla scena dell’immenso cavallo di legno, dono votivo dei Greci, che troneggia sinistro davanti alle mura di Troia. Inutilmente tuonò  Laocoonte: timeo Danaos, et dona ferentis, “Temo i Greci anche se portano doni”, il cavallo con il suo carico di armati nascosti nel ventre fu portato dentro la città.

 

“Apriamo una breccia nelle mura e spalanchiamo la cinta / della città. Tutti si accingono all’opera e pongono sotto le zampe / scorrevoli rulli e gettano canapi al collo. / Sale la fatale macchina i muri, gravida / d’armi. Giovinetti intorno e intatte fanciulle / cantano inni e godono di toccare la fune. /Quella entra e scorre minacciosa in mezzo alla città./ O patria, o Ilio, dimora degli dei, e gloriose  in guerra / mura dei Dardanidi! Quattro volte s’arrestò sul limitare  /della porta e quattro volte  dal ventre risuonarono le armi. /Tuttavia insistiamo incuranti, e accecati dalla follia, / e collochiamo il mostro infausto sulla sacra rocca”. (Eneide, II vv. 234-245)

E sarà l’inizio della strage e della distruzione di Troia.

 

Troppo lungo invece sarebbe l’elenco di tutte le città costrette alla resa e distrutte dai Romani. Percorrendo a volo d’aquila lo scorrere dei secoli, i futuri dominatori del mondo durante la loro marcia di conquista mostrarono troppo spesso il volto di una aggressiva e vorace  potenza imperialista, che non è arbitrario ricordare accanto a tanta esaltazione delle glorie romane. Basterà darne un  saggio attraverso le parole di antichi storici:

Polibio, al seguito di Scipione Emiliano nella terza guerra punica (149-146 a.C.), lo descrive attonito fra le rovine di Cartagine - da lui distrutta - e tristemente presago del destino di morte cui la stessa Roma prima o poi non si sarebbe sottratta:

 

“Scipione, vedendo ormai ridotta all’estrema rovina la città di Cartagine, pianse apertamente per i nemici. A lungo egli rimase meditabondo, considerando come la sorte di città, popoli, domìni, sia soggetta a cambiamenti al pari del destino degli uomini: ciò era accaduto a Troia, città una volta potente, ai regni degli Assiri, dei Medi e dei Persiani, e recentemente al regno macedone. Infine, sia volontariamente, sia che tali parole gli fossero sfuggite Scipione, senza esitazione né reticenza, nominò la propria patria, per la quale temeva la stessa sorte degli uomini”. (Storie, XXXVIII, 21)

 

Ma prima di queste filosofiche considerazioni il nobile e raffinato Scipione non aveva esitato a indossare i panni del più spietato e disumano dei cosiddetti “barbari”, come dimostra questo passo dello storico Appiano, il quale con un realismo impressionante descrive la città, ormai in preda alle fiamme e la tragica fine degli abitanti:

 

“Il fuoco divampava e divorava ogni cosa, le case non venivano abbattute a poco a poco, ma rovinavano violentemente al suolo tutte insieme. Per questo il fragore risultava più vasto. Mescolati alle macerie, cadevano a terra mucchi di cadaveri, e altri ancora vivi, soprattutto vecchi, donne e bambini e chi si era nascosto negli angoli più remoti delle abitazioni, feriti, mezzi bruciati, lanciando  suoni strazianti. Altri come catapultati da tanta altezza insieme a pietre, legna e fuoco, finivano fatti a pezzi in molti miserevoli modi, squarciati e trafitti.  Né ciò poneva fine ai loro mali: gli addetti a rimuovere le macerie infatti, che con asce, mazze e pali spianavano la strada ai soldati, con quelle stesse asce e mazze e con le punte dei pali spingevano sia i cadaveri sia quelli  ancora vivi nelle buche, come se stessero trascinando e rastrellando legna o pietre”. (Appiano, Le guerre puniche, 128-129)

 

Avvolte da fiamme cadono le mura, i palazzi , i templi  di quella che era stata la più temibile avversaria di Roma. Ma fu sempre lo stesso Scipione, inviato in Spagna a sedare la lunga guerra concentratasi intorno a Numanzia, roccaforte della resistenza spagnola, a sottoporla a un durissimo assedio e infine alla resa per fame (133 a.C.):

“Venendo a mancare loro tutti i mezzi di sostentamento, non avendo più né frutti, né bestiame, né erba, dapprima - come gli altri, stretti dalla guerra, avevano fatto - succhiavano pelli dopo averle bollite; venendo a mancare anche quelle, cominciarono a cibarsi di carne umana, dapprima quelle dei morti, fatte a pezzi nelle cucine, ma poi, avendo disgusto  delle carni dei malati, i più forti divorarono i più deboli. Non si astennero da alcuna aberrazione: selvaggi nell’animo per via di quel cibo, belve nel corpo per via della fame, della peste, dell’aspetto disumano, dell’attesa straziante. Finalmente, in tali condizioni, si arresero a Scipione: [...] i Numantini, orribili e spaventevoli a vedersi, sconvolti, lacerati, sordidi, emanavano un odore nauseabondo, non meno delle loro logore vesti, fissavano i Romani con rabbia e dolore, provati, straziati dall’essersi cibati dei loro simili. Scipione, scelti cinquanta fra loro da far sfilare nel suo trionfo, vendette gli altri e distrusse Numanzia dalle fondamenta. (Appiano, Le guerre di Spagna, 96-97)

Allontanato il pericolo della rivale Cartagine, assoggettata la Grecia con la distruzione di Corinto, debellate le ultime resistenze in Spagna, l’occasione di una nuova guerra, venne ai Romani da contese interne al regno di Numidia (guerra giugurtina, 111-105 a.C.). Durante le operazioni belliche venne rasa al suolo Capsa, importante città numidica:

“Quando i cittadini si resero conto dell’attacco, l’agitazione, il terrore grande, la sciagura improvvisa, il fatto che una parte degli uomini si trovassero fuori dalle mura in balìa dei nemici, li costrinsero ad arrendersi. Ciò nonostante la città fu data alle fiamme, i Numidi adulti uccisi, tutti gli altri venduti, il bottino diviso tra i soldati. Questo gesto, contrario al diritto di guerra, fu commesso non per cupidigia o per scelleratezza del console, ma perché quella località era favorevole a Giugurta e a noi di difficile accesso”. (Sallustio, Guerra giugurtina, cap.8)

L’elenco potrebbe continuare: cambierebbero i nomi dei luoghi e dei comandanti, ma lo scenario sarebbe lo stesso, la sequenza degli atti uguale o con poche varianti.

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