Socrate, luminoso esempio della libertà di pensiero
di Maria Pellegrini
Sull’ultimo numero (n.70) della rivista culturale “Nuovi Argomenti”, dedicato alla libertà d’espressione, i redattori hanno rivolto dieci domande a una settantina di scrittori, poeti e intellettuali italiani. Tra le varie domande, tutte perspicaci, ce n’è una (“Si può ricorrere alla violenza fisica per l’affermazione di un ideale? Quali sono, se ci sono, i valori per la cui difesa varrebbe la pena ricorrere alla violenza o sacrificare la propria vita?”) che mi ha indotto a ripensare nel giorno della Festa della Repubblica ai tanti martiri in nome della libertà d’espressione incontrati nella Storia.
La libertà di pensiero rappresenta la più sacra delle conquiste, ma non può prescindere dalla libertà di parola e di espressione. Ci sono voluti secoli e lotte sanguinosissime, prima che nella coscienza dei popoli maturasse la convinzione che la libertà di manifestare le proprie opinioni e quella di discuterne fossero fondamentali ai fini del progresso e del bene dell’umanità. Il conflitto autorità-libertà ha sempre visti contrapposti uomini e donne portatori di idee nuove a depositari di vecchi princìpi. Ogni epoca storica ha avuto i suoi martiri, costretti al silenzio e considerati nemici da sistemi sociali e politici basati sulla coercizione della libertà perché vedevano in essa un pericolo di sovversione del potere costituito e dell’ordine politico e sociale. Se pensiamo alla storia dell’Occidente, viene subito in mente Socrate, il filosofo greco del V secolo a. C., processato e condannato a morte per aver manifestato e divulgato il suo pensiero liberamente e pubblicamente.
Ripercorriamo sinteticamente il contesto storico nel quale Socrate si trovò a lottare per esercitare il diritto inalienabile della libertà di pensiero ed espressione.
Dopo l’esito disastroso della guerra del Peloponneso che aveva visto su fronti opposti le città-stato di Sparta e Atene (431-404) e la sconfitta di quest’ultima, gli Spartani entrati in città ne abbatterono le mura e si impadronirono della flotta. Il governo democratico fu sostituito con un governo oligarchico composto da trenta aristocratici ateniesi favorevoli agli occupanti. I Trenta spadroneggiarono opprimendo la popolazione con confische, esecuzioni capitali tanto che guadagnarono il nome di “tiranni”. Infine un gruppo coraggioso di esuli liberò la città e poté instaurare un nuovo governo di moderata democrazia (403 a. C.), ma un’amnistia impedì la persecuzione delle persone compromesse con il vecchio regime e il governo sotto l’apparenza democratica, in realtà poggiava su forze conservatrici che avrebbero voluto riportare nello stato di Atene le antiche strutture politico-sociali, unica garanzia, secondo loro, di stabilità e di benessere. Le cause del disastro politico-militare furono individuate nella degenerazione della democrazia causata da quanti avevano incrinato l’unità e il costume etico-religioso dei “padri”. Di fronte all’immensità dei problemi da affrontare e da superare i governanti divennero intransigenti e questa loro intransigenza contro ogni voce critica si scontrò con Socrate, il filosofo (nato ad Atene nel 470/69) che si era dato una missione: individuare le cause della disgregazione morale e politica del popolo della sua Atene ed eliminarle insieme agli effetti deleteri da esse prodotti perché è la ricerca della verità, la ricerca del bene, di ciò che rende la vita degna di essere vissuta, la mèta alla quale gli uomini devono tendere. Socrate trascorreva le sue giornate conversando con tutti, su qualsiasi argomento. Se la sua straordinaria personalità non mancò di lasciare il segno su tutti i suoi interlocutori, l’anticonformismo e l’autonomia dei giudizi morali lo misero in cattiva luce di fronte ai governanti più conservatori, che consideravano il suo insegnamento nocivo per la difesa dei valori tradizionali. Ma Socrate non cercò mai la lotta con le istituzioni, fu il suo essere filosofo che lo condusse fatalmente a urtarsi con esse. Nessun mezzo parve più efficace agli scopi dei restauratori dell’antico ordine che un’azione giudiziaria contro di lui sebbene non avesse mai istigato i suoi ascoltatori a disobbedire alle leggi o a trascurare i loro doveri di cittadini, al contrario, egli stesso da soldato era stato presente nella Guerra del Peloponneso segnalandosi per valor militare in diverse battaglie e mostrando quella grande forza di carattere che lo caratterizzerà in seguito anche nella vita civile. Ma egli insegnava anche che i doveri verso se stessi e verso la propria coscienza erano e al di sopra dei doveri verso lo stato e le sue tradizioni.
Vittima di una campagna persecutoria, accusato di voler divulgare una nuova religione e di corruzione della gioventù, Socrate divenne un pericoloso avversario, un nemico da eliminare perché, pur predicando ai suoi discepoli il rispetto delle leggi, considerava fondamentale l’esigenza che queste fossero in sintonia con la giustizia e ciò poteva suscitare nei giovani una deleteria contestazione dell’operato della classe politica.
All’età di settant’anni fu chiamato in tribunale a difendersi contro le accuse che gli erano state mosse da alcuni influenti personaggi ateniesi. Fu processato con l’accusa di “empietà e corruzione dei giovani”. Al processo, dopo aver pronunciato egli stesso una difesa appassionata del suo operato, fu condannato a morte.
Si difese da solo pronunciando tre discorsi per smontare tutte le accuse a suo carico. Dunque, anziché pentirsi o implorare clemenza, ribadì le proprie convinzioni chiarendo che il suo compito era quello di stimolare i cittadini a seguire le virtù, ma il processo si concluse con il riconoscimento della colpevolezza di Socrate.
Dopo un mese di detenzione, la sentenza fu eseguita ed egli bevve senza esitazione la cicuta, sostanza velenosa usata per somministrare la pena capitale nell’antica Grecia. Pronunciò l’ultimo discorso proponendo una riflessione sulla morte che non è da temere perché simile a un sonno profondo e quindi indolore o a un trapasso verso un mondo migliore e perciò quasi da desiderare. Salutò i suoi amici con queste parole: “Ecco che è giunta l’ora di andare: io a morire e voi a vivere. Chi di noi abbia avuto il destino migliore è oscuro a tutti fuorché agli dei”.
È probabile che gli accusatori mirassero soltanto al suo esilio, ma egli, come sempre, rifiutò i compromessi e affrontò tale morte con serenità, rifiutando - per non violare le leggi della sua città - la fuga offertagli dall’amico Critone, con la complicità dei guardiani,. Così facendo suscitò nei suoi discepoli un’ammirazione sconfinata.
Cicerone affermò che “Socrate per primo fece scendere la filosofia dal cielo e la trasportò nelle città introducendola anche nelle case e costringendola ad occuparsi delle questioni attinenti la vita, i costumi, il bene e il male”. Parole che esprimono esattamente il carattere della ricerca socratica. Essa ha per oggetto esclusivamente l’uomo e il suo mondo, cioè la comunità in cui egli vive. La sua missione era quella di promuovere nell’uomo la ricerca intorno all’uomo. Questa ricerca doveva tendere a portare ogni individuo al riconoscimento dei suoi limiti e a renderlo giusto e solidale con gli altri. Perciò egli fece suo il motto dell’oracolo di Delfi “Conosci te stesso”, che diventò l’indicazione della sua ricerca filosofica. Socrate, critico implacabile di qualsiasi specie di conformismo sociale e morale accettato passivamente e acriticamente, mirava a ricostruire nell’uomo la morale seguendo la propria coscienza, guidata dalla ragione e dalla riflessione costante su se stesso e sulle sue azioni.
Socrate non lasciò scritti, filosofare è colloquio continuo che tende verso la verità, che non può essere fissato una volta per tutte nella parola scritta. Quel che sappiamo di lui e del suo insegnamento lo dobbiamo soprattutto a Platone, che ne fece il protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi (i cosiddetti dialoghi socratici) e ritrasse nella maniera più fedele il suo pensiero. Egli non voleva insegnare ai suoi discepoli una sua dottrina, ma stimolarli nella ricerca della loro personale verità. Il metodo della ricerca socratica non poteva dunque essere che attraverso la dialettica paragonata a quella della levatrice, per “tirar fuori” dai suoi interlocutori pensieri personali, a differenza di quanti volevano imporre le proprie vedute con la retorica e l’arte della persuasione.
È nota la sua affermazione: “io so di non sapere”, testimonianza di quanto fosse convinto che l’uomo deve impegnarsi a fondo nella conoscenza, anche se non potrà raggiungere un sapere perfetto. È questo il mezzo migliore per raggiungere la felicità, giacché, come spesso ripeteva, “una vita senza ricerca non è vita umana”.
Il processo a lui intentato fu in primo luogo un processo politico contro un uomo considerato nemico perché portava idee nuove e mostrava l’inadeguatezza dei politici al governo della città.

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