Editori e librerie nella Roma repubblicana e del primo periodo imperiale
di Maria Pellegrini
La 28ma edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino (14-18 maggio) è “un evento molto atteso che ha una grande importanza simbolica per il libro, la lettura e il valore della cultura tutta”, come hanno ricordato in conferenza stampa il presidente del Salone e il direttore editoriale all’inaugurazione di questa kermesse culturale, che offre sterminati scaffali nei quali il pubblico può ritrovare libri dimenticati, volumi introvabili e le ultime novità in ogni campo del sapere. I giornali, la Rai e la Televisione si occupano di questo evento e viene spontaneo domandarsi quale importanza, quale diffusione, quale valore i nostri antenati della Roma antica riservarono ai libri.
I personaggi dell’alta società romana più colta avevano sempre amato possedere i libri, considerati oggetti di grande valore perché fonti del sapere. Il contatto con il mondo greco affascinava molti esponenti della classe dirigente romana. Con la vittoria nella terza guerra macedonica e la resa del re Perseo presso Pidna (168 a. C.). la fornitissima biblioteca dei monarchi macedoni, ricca di tutte le opere del pensiero greco, venne trasferita a Roma: ciò facilitò e velocizzò l’incontro tra le due culture, tanto che Orazio scrisse la famosa frase Grecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio (la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò il rozzo vincitore e introdusse le arti nel Lazio agreste).
Roma ebbe la saggezza di aprirsi agli influssi culturali dei popoli assoggettati, che sul terreno delle arti, della storiografia e della filosofia riuscirono a imporre la loro cultura al “rozzo vincitore”. Non è certo un caso che il più fecondo di questi influssi fu quello della evoluta civiltà greca, prima intorno alla metà del III secolo a.C. dopo il contatto e lo scontro dei romani con le città della Magna Grecia, poi, un secolo più tardi, direttamente e brutalmente, con la Grecia.
Nell’84 a. C. il dittatore Silla conquistò Atene e depredò la biblioteca di Apellicone proprietario di una delle più importanti collezioni di libri, di cui facevano parte anche i manoscritti di Aristotele. Marco Antonio possedeva molti volumi provenienti dalla Biblioteca di Pergamo, tanto che ne donò duecentomila, come gesto compensativo, alla Biblioteca di Alessandria andata in parte a fuoco durante la guerra Alessandrina di Cesare nel 48 a. C.
L’idea di biblioteche pubbliche - erano molto diffuse quelle personali - era stata di Cesare che incaricò lo studioso Terenzio Varrone di procurare i libri, ma la morte improvvisa e violenta gli impedì la realizzazione dell’opera. Augusto continuò il progetto del suo padre adottivo e realizzò due biblioteche una sul Palatino e una nel Campo Marzio.
Come testimonia Vitruvio avere una biblioteca divenne una moda che in età imperiale regalava prestigio e contribuiva al successo e alla notorietà.
È in questo clima che trionfa la figura del bibliomane che si preoccupa di radunare rotoli spesso rari, magari in preziosi armadi di cedro e d’avorio, badando più all’aspetto esteriore che non al sapere di cui i libri sono depositari. Spogliati di ogni valore culturale e ridotti a ornamento i libri vanno ad arricchire le biblioteche delle ville. Seneca inveisce contro i bibliofili analfabeti che fanno dei libri non uno strumento di lavoro, bensì un ornamento delle sale da pranzo, cosa che accade spesso anche oggi tra i ricchi ignoranti. Luciano Di Samosata (scrittore e retore di origine siriana, celebre per la natura arguta e irriverente dei suoi scritti satirici, vissuto nel I secolo d.C.) scrisse addirittura un libello polemico contro il bibliomane ignorante che compra i libri per ostentare la sua ricchezza e fingersi uomo di cultura.
Ma torniamo alla fortuna e alla diffusione del libro a Roma e al primo editore, Tito Pomponio Attico (110-32 a.C.), amico di Cicerone che affidava a lui la sorte di ogni suo manoscritto. Era talmente alta la stima che Cicerone nutriva nel suo editore che in una lettera ad Attico scriveva: Hai venduto magnificamente la mia orazione in difesa di Ligario. Di tutto ciò che scriverò in futuro ti affiderò la propaganda e la vendita. Smisuratamente ricco, Attico soggiornava per lunghi periodi in Grecia e possedeva una ricca collezione d’arte e di libri. Tra i suoi schiavi c’erano fanciulli eruditi (pueri litteratissimi), lettori (anagnostae), e copisti (librarii), in genere di origine greca come si suppone da alcuni nomi: Dionisio, Anteo o Farnace.
Questa manodopera specializzata assicurava alla sua attività celerità e diffusione delle opere da lui pubblicate. Nei suoi laboratori oltre che ai copisti aveva anche correttori di bozze e - in anticipo di millenni - seguiva tecniche imprenditoriali innovative, come ottenere il diritto esclusivo di alcune opere di ottimo livello, concesso dall’Autore stesso. Il commercio librario assunse un’importanza sempre maggiore. Questo era l’iter di un’opera: l’autore scriveva di suo pugno il testo oppure molto spesso lo dettava. Per accelerare il lavoro si adottavano sistemi stenografici. Il primo a usare un simile procedimento fu Tirone, un liberto di Cicerone, che dette vita a un sistema di simboli, definiti “note tironiane”. Il sistema di Tirone era composto di 400 segni, in epoca più tarda fu ampliato a 500. L’autore presentava alcuni stralci del suo libro in una lettura pubblica tra una cerchia di amici o davanti a un pubblico più vasto, anticipando di secoli le nostre presentazioni. Se otteneva il consenso degli uditori affidava il testo a un editore contribuendo alla copertura delle spese per addestrati copisti che provvedevano a farne più esemplari. Per la riproduzione vi era un solo metodo, quello di copiarlo. L’editore poteva anche rimanere con copie invendute, e allora per liberarsi delle giacenze di magazzino le esportava in provincia. Lo documenta Orazio prevedendo la fine di un suo libro: Tu rimarrai amato a Roma, finché dura il tuo giovanile splendore./ Quando però cominci a logorarti, imbrattato da sporche mani,/ allora il tuo triste destino è di servire da pasto alle tignole,/ o di migrare impacchettato verso Utica o Ilerda (Epist., I, 20, 10 sgg.).
La trasmissione del sapere, affidata prima alla oralità, poi alla scrittura, doveva quindi realizzarsi compiutamente attraverso la pubblicazione in più copie dei libri assicurando così che essi si diffondessero. Del resto un testo letterario ha una naturale destinazione: la sua pubblicazione e diffusione.
C’era uno stretto legame quasi filiale tra l’Autore e la sua opera, sfogliando le lettere di Cicerone leggiamo queste espressioni nostrum librum, meam epistulam, scripta nostra. Dunque l’atto creativo di un autore era proprietà dell’Autore stesso che si definiva pater dei suoi libri, ma una volta ceduto il manoscritto all’editore i profitti ricavati dalle vendite non erano più suoi. Leggiamo nell’icastico epigrammista Marziale: Perfino la Britannia legge ormai le opere che ho composto./ Soltanto l’onore è la mia ricompensa, il mio portafoglio non si riempie (XI, 1, 3, 5). Nel diritto romano non esisteva il diritto d’autore, alle opere scritte si applicava lo stesso principio seguìto per i proprietari di un terreno: per cui tutto ciò che era costruito sul suolo altrui, e ne costituiva un incremento, spettava al proprietario del suolo, perciò tutto quello che era scritto sulle pergamene o sui papiri di proprietà del libraio apparteneva a lui.
Molti, credendo nell’avvenire del libro, aprirono delle botteghe e organizzarono squadre di copisti dando così vita, in una società senza tipografie, a vere e proprie case editrici.
Nel I secolo d. C., accuratamente ordinati in appositi scaffali, i libri si potevano acquistare nei numerosi negozi (tabernae) dei librai, sparsi nel Foro e nei punti più frequentati di Roma, e diventarono, in breve, motivo di riunioni e di affollati dibattiti. I librai (bibliopolae) divennero un corpo di negozianti con le sue regole.
Marziale nomina librai situati sulla via detta Argiletum e dà queste indicazioni per arrivarci: Perché tu non debba girovagare senza meta per le strade,/senza sapere dove, annotati questo indirizzo:/al negozio di Secondo, proprio dietro il tempio della dea/ Pace, vicino alla piazza di Nerva /là puoi comprare il mio libro (IX, 11, 2). Veniamo a conoscenza da questo epigramma che un officina libraria situata dietro il tempio della Pace apparteneva a un certo Secondo.
Orazio ricorda i Sosii, proprietari di un negozio di volumina presso la statua di Giano nelle vicinanze del tempio di Vertunno e si lamenta perché il suo libro arreca guadagno ai due fratelli Sosii, a lui l’onore /se varca il mare ed espande la gloria per tutto il mondo (Ars, II, 3, 345).
Tito Livio e Seneca facevano i loro acquisti da Doro. Molto nota anche la bottega di Trifone che vendeva le Istituzioni oratorie di Quintiliano e gli Epigrammi di Marziale.
Già i nostri antenati consideravano la lettura un modo intellettualmente stimolante di occupare il tempo, uno strumento per approfondire la conoscenza di sé e degli altri. E noi? I dati sulla lettura in Italia sono allarmanti. Secondo i dati ISTAT, nel 2014 i lettori di libri scendono al 41,4%. Come sempre in Italia le donne leggono più degli uomini, con il 48% delle donne che hanno letto almeno un libro nel 2014 rispetto al 34,5% degli uomini.
Nota
L’importanza dei libri come diffusione del sapere e della libertà di pensiero è data anche dal pericolo che dittatori di ogni epoca videro nei libri che esprimessero idee contrarie alle proprie. Incendi, cancellazioni e distruzioni da parte di poteri politici e religiosi si susseguirono per secoli e ancora oggi assistiamo inerti alla distruzione di reperti archeologici, depositari di culture millenarie, per fanatismi ideologici o religiosi. Per tornare ai romani citiamo solo due esempi: Tacito negli Annales, rievoca l’episodio del senatore Cremuzio Cordo, i cui scritti furono banditi da Tiberio perché aveva osato esaltare Bruto e perché celebrò l’indipendenza dell’individuo, secondo le indicazioni dello stoicismo, la sua fede filosofica, Cremuzio si difese invano. Assistette al rogo dei suoi libri e si lasciò morire d’inedia. Diocleziano nel 303 d.C. fece dare alle fiamme le scritture sacre dei cristiani. Ma di tutto ciò sarà bene parlare più dettagliatamente.

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