Disimpegno come lotta politica involontaria: Catullo
di Maria Pellegrini
Da un po’ di anni si sta diffondendo in Italia un disinteresse per la partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. Assistiamo a fenomeni di corruzione, spreco di soldi pubblici per inutili opere faraoniche, grandi e piccole ingiustizie ai danni dei più emarginati e rispondiamo - i più, non tutti per fortuna -con un assopimento delle coscienze, presi da un senso di impotenza o di adeguamento ai tempi senza scandalizzarci più di tanto, e ci rifugiamo nel nostro privato. Questa stanchezza e allontanamento dalla politica e condanna della passione politica come fonte di violenza civile, si verificò anche in poeti della latinità che amiamo, come Catullo, conosciuto soprattutto come poeta d’amore, ma che, pur lontano da impegni politici per “cambiare il mondo”, scrisse versi per condannare i politici e il loro malaffare.
L’estraneità del poeta Catullo (Verona ca.84-54 a. C.) al potere e al mondo della politica in generale hanno motivazioni storiche precise. Durante l’intero primo secolo a. C. era necessario disinteressarsi della politica oppure farsene partecipi fino alle estreme conseguenze. Fecero questa seconda scelta Sallustio, Cicerone, Cesare. Fece invece la prima scelta Catullo. La morte precoce fu forse il risultato di una lacerante esperienza esistenziale: su di essa non poterono non influire corrosivamente i tragici sfondi storici. D’altra parte il netto rifiuto di svolgere un qualsiasi ruolo all’interno delle molte vicende alle quali il poeta assisteva era tuttavia un altro modo di giudicarle. Non erano ancora spenti i bagliori sinistri della “guerra sociale”, poi della disperata lotta schiavile capeggiata da Spartaco; gli eserciti professionali voluti da Caio Mario, al contrario di quelli costituiti da liberi cittadini, imperversavano in Italia contro quelli di Silla; le feroci proscrizioni sillane falciavano indifferentemente “equites” e “optimates” purché in possesso di ricchezze requisibili dai partigiani e dai sicari del primo dittatore perpetuo; poi il triumvirato, e il consolato e il primo proconsolato di Cesare con il genocidio delle tribù galliche che si opponevano alla conquista romana; la vasta e minacciosa congiura di Catilina, poi l’esecuzione di tutti i capi catilinari nel carcere Mamertino; per di più, il tribuno Clodio, fratello della donna amata da Catullo, capeggiava le squadracce di parte “popolare” che seminavano il terrore ovunque s’imbattessero nelle squadracce “aristocratiche” guidate da Milone. Ebbene, a tutto ciò nessun accenno, neanche casuale, nelle poesie di Catullo.
Base dell’ideologia romana aristocratica era stata da sempre il primato dell’impegno politico del cittadino su ogni altra attività (persino l’“otium” studioso o contemplativo era guardato con sospetto); inoltre la città-stato romana era divenuta potenza italica e poi extraitalica e mediterranea attraverso una serie interminabile di guerre sanguinose; il cittadino-soldato costituiva la fisionomia essenziale del romano. Questi cardini non sono esplicitamente contestati da parte di Catullo bensì disinvoltamente ignorati in una sorta di anarchismo che riconosce valori diversi: l’amicizia di gruppo contrapposta al collettivismo patriottico della “civitas”; l’amore, anche esasperato, come centro emotivo e letterariamente fecondo della persona umana; la “fides”, cioè la lealtà nei rapporti interpersonali fortemente individualizzati; il culto del “lepos”, cioè della scherzosa e disinvolta raffinatezza di modi: ideali aristocratici senza dubbio, ma di un’aristocrazia dello spirito, che nulla aveva a che fare con l’aristocrazia politica ed economica.
È impossibile negare che l’epicureismo - con la sua propaganda per il disimpegno dalla politica - fu un elemento di erosione all’interno del sistema imperialistico romano, espressione della crisi profonda e tragica che il mondo latino attraversò nel primo secolo a.C.
Un’osservazione interessante al fine di definire il clima letterario e umano nel quale viveva e operava Catullo è che mai nella sua poesia - in un periodo di tragiche tensioni sociali e civili - v’è un accenno o accento “politico”. C’è anzi disprezzo per la politica, per i politici e per quanti rappresentano il potere. Ciò non significa certo uno schieramento politico del giovane poeta, e neanche un’indignazione morale in presenza di una immorale condotta amministrativa bersagliata dalla sua violenza accusatoria. Anzi, Catullo stesso nei confronti della norma etica più elogiata e insieme più disattesa: quella dell’onestà, confessa a proposito di Memmio, propretore in Bitinia, e di Pisone, proconsole in Macedonia, di fustigarli perché non hanno permesso anche a lui di partecipare alla spartizione del bottino accumulato taglieggiando le popolazioni delle province a loro indegnamente affidate. Egli quindi vorrebbe essere stato partecipe della corrotta prassi amministrativa dello Stato romano, e vuole che lo si sappia, che non lo si giudichi onesto e puro; però ha anche il coraggio di fare i nomi dei potenti corrotti: ed erano tempi duri, non inclini al perdono di chi denunciasse gli arbitrii e la disonestà. Di Cesare, Catullo proclama di non curarsi, e di non conoscere neanche il colore della pelle; contro di lui scrive numerosi versi, accomunandolo a Mamurra, ex prefetto del Genio militare durante le campagne cesariane di Spagna e di Gallia.
Non m’importa, Cesare, di voler piacerti.
Non so neanche se sei bianco o nero.
(XCIII)
Contro la coppia Mamurra-Cesare, Catullo scaglia una raffica di denunce e ingiurie:
Chi può tollerare la vista, chi può sopportare
- a meno che sia un depravato, un pappone, un biscazziere -
che Mamurra possieda tutto ciò che stillava
grasso nella Gallia chiomata e nella remota Britannia?
Cesare finocchio, vedrai e sopporterai queste cose?
[…]Sei tu allora il depravato, il biscazziere, il pappone.
A tal fine, condottiero senza pari,
sei stato nell'isola più remota d'occidente,
perché questo nostro Cazzaccio
strafottuto divorasse venti o trenta milioni?
[…]Perché vi scaldate in seno un simile furfante? O cos'altro
sa fare costui, se non divorare grassi patrimoni?
A tal fine, o potenti signori della città,
Cesare e Pompeo avete sconvolto ogni cosa?
(XXIX)
V’è accordo perfetto fra quei due infami invertiti,
Mamurra e Cesare, checca passiva.
Niente di strano: l’uno e l’altro hanno la stessa
macchia: cittadina la prima, di Formia l’altra;
l’hanno come un marchio, non si cancella;
ugualmente viziosi, una coppia di fratelli
gemelli, letteratucoli entrambi sullo stesso lettino,
adultero ingordo questo non più di quell’altro,
alleati nel gareggiare anche con le ragazzine.
V’è accordo perfetto fra quei due infami invertiti.
(LVII)
Anche nei riguardi di Cicerone uno dei capisaldi più noti dello schieramento aristocratico-senatorio il poeta rivolge un omaggio sospetto, quasi certamente ironico:
O Marco Tullio, il più eloquente dei discendenti
di Romolo, quanti più saranno negli anni futuri,
ricevi gli infiniti ringraziamenti di Catullo,
il peggiore di tutti i poeti,
il peggiore di tutti i poeti quanto
tu sei migliore di tutti gli avvocati.
(XLIX)
A questo proposito si potrebbe obbiettare che il coraggio di Catullo nell’attaccare i potenti anche in modo ingiurioso, derivava dal fatto che egli era un grande poeta e il rampollo di una ricca e influente famiglia della Cisalpina, e godeva della simpatia e della stima proprio dell’uomo che egli aveva così pesantemente ingiuriato, il grande Giulio Cesare (il quale per giunta, quando si recava in Gallia, era ospite nella villa dei genitori del poeta a Sirmione); ma ciò non basta a sminuire l’audacia a volte temeraria di Catullo nel farsi beffe di chiunque sollecitasse la sua inclinazione alla critica anche violenta: non è dunque un caso che lo stesso Cicerone abbia dovuto sopportare quell’ambiguo e forse burlesco elogio da parte di questo enfant terrible delle lettere latine, così come accadde anche ad Asinio Gallo (a causa della goffaggine dei suoi scherzi, per esempio rubare i fazzoletti agli amici riuniti a banchetto), fratello di un altro potente della politica romana, Asinio Pollione.
C’è tuttavia da notare che in età repubblicana l’influenza della satira, sulle orme di Lucilio ritenuto il padre di questo genere letterario, consentiva una disinvoltura critica che talvolta poteva anche non dispiacere a chi di essa fosse oggetto. C’è in proposito una lapidaria testimonianza dello storico Tacito, che qui riportiamo per la sua formidabile icasticità sentenziosa:
“Le opere di Bibaculo e di Catullo sono piene di ingiurie contro Cesare: ma il divo Giulio […] le tollerò o fece finta di ignorarle, non saprei dire se più per moderazione o per saggezza. Infatti le offese svaniscono, se non le curi; se te ne adiri, le confermi”.

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