Gen­tile let­tore, oggi è festa e non abbiamo fretta, stai qui con me dieci minuti che ti rac­conto una cosa. Sie­diti vicino però, voglio par­lare pacato, ché nella testa ho un bugno di vespe ma la mia penna va a sega­tura, evi­tiamo i sus­sulti. Guarda poi, se sei un fut­bo­logo è pro­ba­bile che tu la cono­sca già que­sta sto­ria, e non fa niente. Oggi è festa, non abbiamo fretta e ce la rac­con­tiamo di nuovo.

«E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda»

Erano pas­sati solo due anni dalle ele­zioni del ’29. Allora ai circa nove milioni di ita­liani che anda­rono a votare erano state con­se­gnate due schede di uguali dimen­sioni, entrambe reca­vano la scritta «Appro­vate voi la lista dei depu­tati dise­gnati dal Gran Con­si­glio Nazio­nale del Fasci­smo?». Quella tutta mar­ron­cina era per il NO, quella tutta tri­co­lore per il SI. Tu cosa avre­sti votato? Anda­vamo alla grande. Erano pas­sati cin­que anni dall’omicidio di Mat­teotti, solo tre da quando i par­titi di oppo­si­zione erano stati sciolti, il diritto di scio­pero abo­lito, la libertà di stampa ridi­co­liz­zata, Anto­nio Gram­sci incar­ce­rato. Dicevo, tu cosa avre­sti fatto? Tu, io, noi, tu che avevi il nonno par­ti­giano, anche tu. E cosa ne sai – ah boh –, che cosa ne so. Il 98.33% degli ita­liani al voto, ovvero tutti, dis­sero va bene, si pro­ceda, è tutto a posto, tran­quillo. Tran­quillo is dead baby, tran­quillo is dead, que­sta è l’aria che tirava.

Il 13 set­tem­bre del 1931 il pro­blema del voto Bruno non poteva ancora por­selo, solo un mese dopo avrebbe com­piuto i ven­tuno anni neces­sari al diritto al suf­fra­gio – ven­tuno anni maschi esi­geva la Patria. Bruno era nato nel 1910 a Faenza e gio­cava a pal­lone, prima da ter­zino, poi da mediano. Aveva esor­dito a soli 16 anni nella squa­dra della sua città, ma le sue doti erano state notate e per 10.000 lire era stato acqui­stato dalla Fio­ren­tina fon­data da poco dal mar­chese Luigi Ridolfi, ari­sto­cra­tico fasci­sta della prima ora. Bruno era bravo, era un pro­fes­sio­ni­sta, diceva «il pal­lone va gio­cato prima di rice­verlo» – che signi­fica che la testa la devi usare prima dei piedi, una frase che potre­sti sen­tire da un qua­lun­que alle­na­tore moderno. Aiutò la Fio­ren­tina a con­qui­stare la mas­sima serie nel 1931 e l’anno seguente avrebbe rag­giunto un quarto posto in Serie A e la defi­ni­tiva affer­ma­zione. E poi ancora sareb­bero venute la Luc­chese, il Torino e le con­vo­ca­zioni nella nazio­nale mag­giore di Vit­to­rio Pozzo, quella che avrebbe vinto due Mon­diali e un’Olimpiade.

Quel che accadde il 13 set­tem­bre del 1931 pre­cede cro­no­lo­gi­ca­mente la fama spor­tiva che Bruno avrebbe con­se­guito in seguito. A Firenze era un giorno spe­ciale, si teneva l’inaugurazione del nuovo sta­dio inti­to­lato a Gio­vanni Berta, lo squa­dri­sta fio­ren­tino “Mar­tire della Rivo­lu­zione Fasci­sta”. Uno sta­dio da qua­ran­ta­cin­que­mila spet­ta­tori molto bello per l’epoca, pro­get­tato da Pier Luigi Nervi, con una Torre di Mara­tona, una tri­buna coperta da un’audace pen­si­lina a sbalzo, le tre scale eli­coi­dali e la pianta a forma di D, a indi­care nel Dux la com­mit­tenza fasci­sta. Per l’inaugurazione si sarebbe gio­cata una par­tita ami­che­vole tra Fio­ren­tina e Admira Vienna. Ci è per­ve­nuta una foto, dive­nuta poi famosa, in cui si vedono le squa­dre schie­rate in campo prima dell’inizio della par­tita. Bruno era tra i con­vo­cati e fu l’unico a non ren­dere omag­gio alle auto­rità con il saluto romano.

Ti devo dire due cose veloci su que­sta mera­vi­gliosa imma­gine di un faen­tino ven­tenne pal­lo­naro nel mezzo di saluti fasci­sti, nel mezzo di una cele­bra­zione fasci­sta, nel mezzo del ven­ten­nio espres­sa­mente fascista.

Qual­che giorno fa leg­gevo que­sta frase da Una guerra civile di Clau­dio Pavone, ripor­tata da Vanessa Roghi in un bell’articolo su Inter­na­zio­nale. «Para­fra­sando un vec­chio canto anar­chico, un anziano comu­ni­sta ita­liano così si rivolse ai figli: “Amate la madre­pa­tria, ma ricor­date che la patria vera è il mondo intero e, ovun­que vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fra­telli”». Ecco, le idee di fra­tel­lanza e inter­na­zio­na­li­smo sca­vano uno iato con quella foto­gra­fia. Bruno nell’immagine è “il solo” e sem­bra solo, ma non è solo, per­ché si rivolge allo spa­zio esterno, all’outer space, la sua pro­ie­zione è fuori da quel contesto.

Scri­ve­vano qual­che tempo fa i Wu Ming su Giap: «Di destra è chi pensa che la nazione sarebbe – e un tempo era – unita, armo­niosa, con­corde, e se non lo è (più) la colpa è di forze estra­nee, intrusi, nemici che si sono infi­lati e con­fusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati, espulsi, così la comu­nità tor­nerà unita. […] Per capire se un movi­mento è di destra basta vedere come descrive la pro­ve­nienza dei nemici. A seconda dei momenti e delle fasi sto­ri­che, ce la si prende col musul­mano, con l’ebreo, con il negro, con lo slavo, con lo zin­garo o col comu­ni­sta che «tifa» per potenze stra­niere, con la «Casta», Roma ladrona, l’Europa…». Bruno non era solo, scru­tava oltre l’orizzonte alla ricerca di qual­cosa che da solo non avrebbe trovato.

Il secondo dei pen­sieri annun­ciati è che spesso a que­sta foto è asso­ciata la parola “corag­gio”. Gli squa­dri­sti non ci anda­vano per il sot­tile nep­pure con i per­so­naggi famosi, figu­rati con un cal­cia­tore ven­tenne di Faenza all’inizio della sua car­riera. Però la cate­go­ria del corag­gio non mi sod­di­sfa, mi fa pen­sare a impresa di fede e ardi­mento, a un atto estem­po­ra­neo di sacri­fi­cio, auda­ce­mente eroico quando non sem­pli­ce­mente goliar­dico. Roba fasci­sta insomma. No, non credo che per lui fosse così. Bruno era una per­sona mode­rata nei modi e già colto. A Firenze aveva preso a fre­quen­tare mostre e musei, andava al Caffè delle Giubbe Rosse, dove poteva incon­trare Euge­nio Mon­tale, Carlo Emi­lio Gadda, Tom­maso Lan­dolfi, Elio Vit­to­rini, fre­quen­tava suo cugino Vir­gi­lio Neri, anti­fa­sci­sta e in con­tatto con don Sturzo e Gron­chi. Poi gra­zie al cal­cio aveva fre­quen­tato l’alterità inter­na­zio­nale già a Faenza, quando era stato alle­nato da ben tre alle­na­tori della grande scuola di cal­cio unghe­rese, Adal­berto “Bela” Balassa, Carlo Kel­chen e Lajos Czeiz­ler. Tutti costretti, come anche Ernő Erb­stein, lo scia­gu­rato Árpád Weisz e altri, a lasciare l’Italia con la pro­mul­ga­zione delle Leggi raz­ziali fasci­ste del ’38.

Forse in quella foto il gesto di Bruno poteva anche sem­brare corag­gio, ma non sarebbe stato così dopo il 25 luglio 1943 quando – come scrisse Vit­to­rio Foa – resi­stere era diven­tata «una dispe­rata neces­sità». Dopo l’armistizio di Cas­si­bile si arruolò tra le file della Resi­stenza par­ti­giana, vice­co­man­dante del Bat­ta­glione Ravenna con nome di bat­ta­glia “Berni”. Era dislo­cato nella zona com­presa tra il campo d’azione di quel matto di Sil­vio Cor­bari e la 36a Bri­gata Bian­con­cini, in un’area stra­te­gi­ca­mente signi­fi­ca­tiva a ridosso della Linea Gotica.

Bruno Neri – ma pensa, che nome per un par­ti­giano anti­fa­sci­sta – morì a Gamo­gna, il 10 luglio 1944.

Forse tu que­sta sto­ria la cono­scevi già, ma non credo ti sia anno­iato. È fut­bo­lo­gica, e nel suo ricordo ho la sfac­cia­tag­gine di dare una rispo­sta anti­re­to­rica e locale ai tanti eventi nazio­nali di cele­bra­zione della Resi­stenza, pla­sti­smi vuoti di senso. I fasci­sti, veri come quelli di ottanta anni fa, sono negli stadi, nel cuore delle città, essi non odiano, essi coman­dano. Che si tratti dei set­te­cento morti migranti o della vicenda di Ciro Espo­sito, le orri­bili parole che sono stato costretto a leg­gere, i bestiali com­por­ta­menti che mi sono mostrati per tele­vi­sione, al cinema, su inter­net o sulla carta stam­pata non sono odio. Sono l’ignoranza fasci­sta e padrona che allaga fetida il discorso pub­blico dai piani alti della comu­nità. La Resi­stenza è oggi, non v’è paci­fi­ca­zione da festeg­giare. È da festeg­giare che siamo qui e ora a ricor­darlo a noi stessi, la libe­ra­zione deve esser permanente.

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