di Maria Pellegrini

 

Il più moderno e attuale, e forse il più grande dei poeti latini, Lucrezio (98-55 a.C. sono le date incerte di nascita e morte), nel passo conclusivo del V libro del suo poema “Sulla natura delle cose” - che costituisce una sintetica storia dell’umanità, narrata spesso con il tono solenne e risolutamente polemico - ci dà una dimostrazione di quanto si possa imparare da un testo antico.

Tale storia è infatti incentrata sulla controversa nozione di “progresso”. Nel progresso tecnologico Lucrezio crede, ma su quello morale dell’uomo egli nutre seri dubbi. Un esempio di questa contraddizione sono i versi che contengono una vigorosa contestazione della tecnologia posta al servizio della guerra.

Sulla disumanità della guerra Lucrezio scrive versi mirabili capaci di offrirci un quadro agghiacciante del progresso applicato agli scontri bellici. I nuovi ritrovati e le nuove tecniche di combattimento sono naturalmente quelli dell’antichità, cioè dell’epoca in cui il poeta vive e agisce. L’uso degli elefanti, delle tigri, dei cinghiali, ma oltre alle belve anche carri falcati, bàliste, catapulte e numerose altre macchine da guerra sono ricordati dal poeta come esempio dell’intelligenza umana stoltamente e barbaramente impiegata per distruggere anziché costruire una società più giusta. Quella di Lucrezio è una denuncia risoluta della brutalità della guerra condotta con armi sempre più distruttive di vite umane.

Sul progresso, dunque, Lucrezio ha molti dubbi, eccettuato il progresso del razionalismo intellettuale. La politica romana si era sempre fondata sulla religione di Stato, sulla guerra, sul ferreo controllo di un potere fortemente centralizzato (prima i re, poi il Senato aristocratico), oltre che sull’illusione o malafede di una civilizzazione, cioè di un progresso delle nazioni sottomesse con la violenza. In tal senso, il poema lucreziano, si può ritenere una vera e propria, consapevole o meno, contestazione globale di quel sistema di potere.

E la storia umana è sì un progredire continuo di tecnologie e di leggi che hanno permesso la conservazione della specie, ma anche, contradditoriamente, un continuo succedersi di guerre, bramosie, sete di potere, assassinii politici, rivolgimenti, in una dialettica di positivo e negativo che rende difficile, se non impossibile, un giudizio finale sulla natura stessa del cosiddetto “progresso”.

Agli albori dell’umanità gli uomini conducevano una vita ferina, obbedendo ai loro istinti e provvedendo alle loro necessità elementari. Erano però vittime delle fiere, sventura però meno grave delle successive battaglie che uccidono migliaia di uomini in un sol giorno, come scrive il poeta:

 

“Ma un solo giorno di guerra non distruggeva migliaia

e migliaia di uomini in schiere, né le sconvolte distese

del mare sbattevano così tanti uomini e navi agli scogli”.

 

Si tratta di una polemica che, giustapponendo la condizione dell’umanità primitiva a quella contemporanea, con un semplice “ma” a distinguere le due condizioni, lascia intendere una maggiore atrocità delle guerre moderne nei confronti dei pur belluini scontri  dell’epoca preistorica.

 

Per lungo tempo Lucrezio è stato ignorato - o se n’è parlato di sfuggita - a causa della carica rivoluzionaria e demistificante del suo poema rigorosamente razionalista e materialista.

Si è discusso a lungo sull’atteggiamento di questo grande poeta verso il potere. In realtà il problema non esiste, giacché nessuno potrà ragionevolmente negare che Lucrezio è stato l’unico radicale rivoluzionario della letteratura latina: con ciò non si intende uno schieramento politico esplicito, quanto il valore dirompente di una intera concezione del mondo al di sopra della politica-cronaca di coloro che compongono le cosiddette “classi dirigenti”. Egli spezza con violenza il tabù della “religio”, cioè di ogni superstizione religiosa. La religione è soltanto fonte di errori e anche di misfatti: “tantum religio potuit suadere malorum” (“a tali misfatti poté indurre la religione”): il sacrificio di Ifigenia immolata a Poseidone, il dio del mare, affinché la flotta greca potesse far vela per Troia, e il vitello abbattuto per compiere un barbaro rito e la disperazione della madre mucca che cerca invano per i pascoli il suo piccolo che strappatole dalla crudeltà dell’uomo.

Nel ricostruire la storia dell’umanità, Lucrezio rifiuta il mito poetico dell’età dell’oro, che nelle sue varie versioni affermava sempre un successivo decadimento e un regresso dell’umanità, che da una condizione “aurea” primitiva, quando la terra donava spontaneamente i suoi frutti e gli uomini vivevano felici, era passata a condizioni di vita ferina a causa dell’abbandono del favore degli dei, motivato da colpe umane o da altri fattori connessi con la concezione di una divinità che regolava e dirigeva le vicende del mondo.

Lucrezio, al contrario, dà della storia dell’umanità un’interpretazione laica e razionalista. Il progresso è stato realizzato con le sole forze degli uomini sospinti dallo stimolo della necessità e con la guida della ragione in una lotta incessante contro ostacoli d’ogni genere. E con il progredire delle scoperte, si è affermato ed esasperato il piacere della ricchezza e del potere, che ha generato invidia, odio, violenza. Ma leggiamo i versi del poeta:

 

“E dunque il genere umano senza frutto ed invano si affanna

in perpetuo, e consuma la vita in inutili pene,

né fa meraviglia, perché non conosce misura

all’avere, e fin dove il piacere vero si estenda.

Ciò a poco a poco sospinse al largo la vita,

e dal fondo sommosse i flutti impetuosi della guerra”.

 

Nella crisi del primo secolo a. C., che modifica profondamente l’assetto tradizionale di Roma adeguandolo ai compiti di Stato universale, l’individuo si sente profondamente alienato dalla società. Una profonda crisi, che non è solo ideale, ma economica, sociale, politica, travaglia il centro stesso della vasta compagine romana; la “res publica” è in pericolo e va sempre più rapidamente verso una inevitabile, e forse necessaria soluzione autocratica, quella del cosiddetto “principato repubblicano”, appoggiata dagli “equites” ma anche dai ceti popolari stremati da secoli di guerre esterne e da decenni di guerre civili, e anelanti alla pace. Ecco dunque il terreno propizio al diffondersi della filosofia epicurea, una filosofia di crisi di tutti i valori collettivi, e al tempo stesso di recupero del primato della ragione su tutte le illusioni e gli “inganni” delle religioni e delle ideologie, una filosofia “sovversiva”, che contesta globalmente i pilastri dell’ideologia quiritaria: la religione olimpica, il culto della “virtus” guerriera il “negotium”, cioè l’attivismo frenetico di ogni ambiente sociale. A tutto ciò gli epicurei contrappongono l’ideale dell’“otium”, non già contemplativo, bensì speculativo, cioè dedito all’indagine sulla struttura dell’universo e sui misteri della natura e della psicologia umana.

La mèta ultima del pensiero epicureo è il raggiungimento della “voluptas”, il “piacere” tutto intellettuale, non alieno tuttavia da ammissibili ma moderati piaceri fisici, e coincidente soprattutto, o esclusivamente, con la serenità del saggio distaccato dalle passioni che sconvolgono la società e l’individuo.

     È in questo quadro che si colloca la figura di Lucrezio, con il suo rigoroso razionalismo, il contraddittorio pessimismo, la cultura elaborata, la dolorosa umanità.

L’adesione di Lucrezio alla dottrina di Epicuro sul terreno dottrinario è entusiastica e ardente.

I cardini della potenza romana sono le armi, il diritto, il “negotium”: per l’epicureo Lucrezio, sullo sfondo dei decenni di Silla, dei triumvirati, di Spartaco, di Catilina, le guerre sono invece la maledizione degli uomini, il “negotium” la condizione della loro ansia: di arricchire, primeggiare, schiacciare i fratelli. Ad essi si contrappone la pace, l’“otium” speculativo del saggio epicureo.

La “religio” - cioè non tanto la concezione delle divinità, quanto la superstizione di un culto rivolto agli dèi alimentata dai sacerdoti al servizio del potere - è fonte di terrore e di schiavitù, strumento di ricatto psicologico e di oppressione politica: la paura della morte ne è la premessa; la stoltezza e l’ignoranza  ne costituiscono la condizione. La religione di stato, la funzionarizzazione dei sacerdoti, la devozione delle plebi alle mitologie autoctone o d’importazione, erano flagellate dall’irruente polemica lucreziana.

Il “De rerum natura” è infatti sotteso da una passione travolgente sia nelle ricerche sulla struttura del cosmo e sui fenomeni dell’universo, sia nella incessante polemica contro ogni forma di fideismo. In contrasto con quanto aveva sostenuto Epicuro, e cioè che l’attività poetica dovesse esclusivamente dilettare con “lievi carmi” evitando di cadere nell’inganno d’una poesia di grande impegno sui problemi esistenziali che sarebbe stata fonte di turbamento nell’animo del lettore, egli scrive un poema didascalico che quell’animo, in più d’una occasione, appassiona e talora sconvolge. Dall’entusiasmo dottrinario all’angoscia di fronte ai mali che affliggono l’umanità; dall’impassibilità con la quale si osservano e si spiegano i più sconvolgenti fenomeni naturali all’intensa, umanissima pietà per le vittime della superstizione religiosa Lucrezio esprime una forte tensione fra inquietudine e serenità desiderata, fra angoscia e ragione.

Ed ecco allora Lucrezio inseguire il senso della vita lungo il cammino della ragione e trovare in fondo ad essa il conforto di un amaro distacco, navigare verso il porto della solitudine, lontano dalle cure della vita e dagli intrighi della politica, e spingere la sua rivolta sino a polemizzare contro gli orrori della guerra: segno di una profonda rivoluzione nella coscienza di un popolo tradizionalmente bellicoso qual era quello romano. Se Catullo aveva reagito agli orrori delle guerre civili e della crisi del I secolo a. C. con il “disimpegno” - e ciò era già uno scandalo per la tradizione romana -, Lucrezio reagisce contestando globalmente le filosofie e le ideologie dell’ordine costituito, smascherando gli dei dell’Olimpo, rinchiusi nelle loro evanescenti sedi e totalmente indifferenti alle sorti dell’umanità.

La lunga serie di versi conclusivi costituisce una sorta di monografia sulla storia dell’umanità, senza paradisi terrestri né età dell’oro, interamente svoltasi sotto il segno della dura necessità e della brama di ricchezza e di potere, oltre che di un incessante progredire della tecnologia troppo spesso messa al servizio delle stragi belliche, anziché del benessere umano.

Lucrezio, che aveva aperto il suo poema con l’inno alla bellezza, alla potenza benefica della natura, principio di vita, lo chiude con l’agghiacciante visione dei morbi che corrodono e devastano il corpo dell’uomo e con la descrizione della peste, mali non dovuti non a punizioni divine, ma a leggi della natura. Ancora una volta  il poeta si scaglia contro l’oscurantismo delle superstizioni e lo sforzo di rassicurare l’uomo sull’origine completamente fisica di alcuni fenomeni straordinari, capaci di suscitare nell’anima delle folle la falsa opinione di un intervento degli dei nelle umane vicende.

Strumento di liberazione intellettuale è la scienza, ovvero la conoscenza delle cause. Senza la conoscenza delle cause gli effetti danno un terrore cieco. È questa la lezione che Lucrezio vuole dare agli uomini.

 

Nota:

Per l’articolo l’Autrice ha spesso fatto riferimento a considerazioni (da lei rielaborate) espresse da Luca Canali nei libri “Lucrezio, poeta della ragione” e “Amore e Morte nella letteratura latina”. (collaborazione e note di Maria Pellegrini)

LUCA CANALI

• Roma 3 settembre 1925 - Roma 8 giugno 2014. Latinista. Scrittore. Poeta. Storico. Ha insegnato Letteratura latina nelleUniversità di Roma e Pisa. È stato autore di opere di narrativa e di numerosi testi di saggistica. Studioso di Cesare. Ha raccontato la sua vita nel romanzo Autobiografia di un baro(1984). Nel 1995 finalista al premio Strega con Nei pleniluni sereni.
• «Dal 1981 si è dedicato esclusivamente all’attività critica e letteraria ed ha molto tradotto: tutta l’opera di Virgilio, Lucrezio ecc.» (Doriano Fasoli) Ultimi libri: Archivio rosso (Manni editore 2007), Fuori dalla grazia (Bompiani 2008), Lampi (Passigli editori 2011), Augusto, braccio violento della storia (Bompiani 2011).
• Ha rivisitato il Satyricon (1999) e collaborato con Fellini per la realizzazione dell’omonimo film. «Diventammo amici. Per come si poteva intendere l’amicizia con Fellini. Qualcosa di volatile».
• «Prima di tutto occorre essere autentici poeti per tradurre altri poeti. Ma, ancor meglio: poeti e filologi nel contempo» (Franco Manzoni) [Cds 4/8/2000].
• «Mio padre faceva il carbonaio, mia madre era una maestrina. Ambiziosetta, mi mandò prima dalle suore inglesi e poi al Visconti: otto anni tra ginnasio e liceo. Frequentato da gente chic. Ero il solo a evidenziare un certo complesso di inferiorità. Vestivo male, portavo i maglioni dismessi da mio padre. Devo dire che i compagni di classe non avevano atteggiamenti di superiorità, erano i professori a discriminarmi un po’ (…) Cercavo il riscatto negli studi. Mi mostrai bravo in latino e greco. Mi laureai con una tesi su Lucrezio, Con il terribile Ettore Paratore. Mi diede 110. Commentò, in seguito, che non poteva dare la lode a un comunista. Divenni suo assistente» (ad Antonio Gnoli, Rep 29/9/2013).
• «Un professore di storia dell’arte ci aprì la testa leggendoci I fiori del male di Baudelaire e Le elegie duinesi di Rilke. Cominciai così ad amare la letteratura. A 16 anni scrissi le mie prime poesie che Ungaretti, con mia sorpresa, pubblicò sulla Fiera letteraria» (Gnoli, cit.).
• «È della generazione che ha vissuto su se stessa gli anni del fascismo, della guerra, della sconfitta, della dissoluzione dello Stato, poi quelli mitici della Resistenza; infine, come sua preistoria, la militanza comunista fino alla desacralizzazione di Stalin. Praticò giovanissimo l’oratoria, quindi i postriboli, nonché il carcere Regina Coeli. Aveva cominciato a scrivere poesie a diciott’anni, ispirandosi alla fatica degli operai che scavavano gallerie sui fianchi del Soratte per il generale Kesselring. Si convertì al latino per amore di Lucrezio (...) Al liceo Visconti fu dapprima pessimo, poi ottimo studente, ma privato dell’agognato cimento degli esami di maturità classica per l’assoluzione plenaria del 1943, anno della disfatta. Nel Pci percorse altresì una lunga, ardua trafila (attacchino e uomo di shock, capocellula, agitprop di sezione, segretario politico di cinque sezioni – Centro, Monti, Mazzini, Ludovisi, Prenestino –, infine membro del Comitato federale (...), fino alla radiazione per “revisionismo”, idest gorbaciovismo ante litteram. Nelle secche della scuola privata giunse fino alla poltrona di preside, da cui fu rimosso come corpo estraneo a quei meccanismi molto ben oliati. A sbalzarlo invece dalla cattedra universitaria, capolavoro del destino, provvide una severissima nevrosi» (Felice Piemontese, Autodizionario degli scrittori italiani, Leonardo 1992).
• «Anch’io oggi rifuggo ogni etichetta. Non sono “niente” tranne che “di sinistra”. Per me essere “di sinistra” oggi vuol dire essere contro questo governo, contro la sua “cultura” furbesca, la sua tv miserabile» (Giuseppina Manin) [Cds 4/1/2003].
• Insegnò all’Università di Pisa per 15 anni ma lasciò per depressione e una psiconevrosi fobico-ossessiva.
• Grande donnaiolo, ha confessato di aver sofferto di una nevrosi sessuale: «Quando mi innamoravo di una donna e subentravano gli affetti, non riuscivo più a fare l’amore fisico. Mi sembrava di commettere un incesto, perché quella donna diventava per me una sorella». (Gnoli, cit.)
• Era rimasto vedovo. «Mia moglie è morta da parecchi anni. Fu un errore sposarmi. Non ero adatto. Ha molto sofferto. Mi sono occupato di quell’opera colossale che fu l’impero romano e la sua caduta, e non vedevo che la decadenza era in casa» (cit.).
• Due figlie, di cui una segreta.
• Innamorato di Roma. «Sento che non saprei vivere altrove» (Lauretta Colonnelli) [Cds 15/3/2011].
• «Invecchiando in solitudine Canali era diventato l’ombra di se stesso. La sua bibliografia, tra saggi, traduzioni, narrativa e poesia, è infinita (Giunti ha pubblicato proprio in questi giorni Pax alla romana. Gli eterni vizi del potere , scritto a quattro mani con Lorenzo Perilli), ma lui stesso ammise che spesso scriveva per terapia. Se nella scrittura e nella letteratura cerchiamo qualcosa che ci faccia conoscere meglio gli uomini e la loro sorte, Canali resta un autore di singolare e (posso dirlo?) perverso fascino. Suo malgrado, un testimone-protagonista del nostro recente passato» (Paolo Mauri) [Rep 9/6/2014].

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