di Carlo Lania

 

«Bene, pos­siamo dire che il famoso giu­dice di Ber­lino esi­ste dav­vero. Lasen­tenza della Corte di Stra­sburgo rico­no­sce quanto acca­duto alla scuola Diaz come epi­sodi di tor­tura, anche se dimo­stra un’incapacità nazio­nale di rico­no­scerli come tali». Mauro Palma è stato per anni il pre­si­dente del Comi­tato euro­peo per la pre­ven­zione della tor­tura e guarda con sod­di­sfa­zione alla deci­sione dei giu­dici euro­pei. Anche se, ammette, nella sen­tenza non man­cano motivi di rifles­sione e autocritica.

«Il qua­dro che emerge del Paese non può che farci guar­dare allo spec­chio in maniera dura per­ché nella sen­tenza si ricorda come nel 2006, rispon­dendo a una richie­sta di chia­ri­menti pro­prio su quanto acca­duto al G8, il governo spiegò che in Ita­lia manca un reato spe­ci­fico per­ché la tor­tura è lon­tana dalla nostra men­ta­lità. Una rispo­sta che lascia ester­re­fatti e che mi scon­volge, per­ché tra le tre situa­zioni di Genova, la piazza, la Diaz e Bol­za­neto, l’operazione Diaz venne pia­ni­fi­cata facendo così inter­ve­nire pro­prio il reato di tortura».

Ci sono voluti 15 anni e un’istituzione stra­niera, per quanto euro­pea, per­ché si arri­vasse a pro­nun­ciare la parola tor­tura sui fatti di Genova.

E’ vero, ma tenga pre­sente che la sezione che ha emesso la sen­tenza è pre­sie­duta da un giu­dice ita­liano, anche se in que­sto caso non pre­sie­deva lui. Poi sì, c’è un ele­mento sovran­na­zio­nale che ci giu­dica e se vuole que­sta è la linea d’ombra tra la posi­ti­vità della deci­sione e la con­sta­ta­zione della nostra inca­pa­cità interna a risol­vere il problema.

La Corte parla di respon­sa­bi­lità della poli­zia per non aver con­tri­buito a iden­ti­fi­care gli agenti autori delle vio­lenze. Un atto di accusa molto preciso.

Dice anche che sono state for­nite foto molto vec­chie degli agenti. Fa parte di que­sta opera di scarsa tra­spa­renza anche la fal­si­fi­ca­zione dei ver­bali e la con­fe­renza stampa suc­ces­siva all’irruzione nella scuola. Tutto que­sto è pro­prio di un sistema cor­po­ra­tivo che si chiude a ric­cio e com­mette reati. Vede, quando si tratta del sin­golo epi­so­dio, della per­sona pic­chiata si può anche pen­sare, sep­pure con le molle, al clas­sico caso della mela mar­cia. Ma qui hai un sistema che difende se stesso fal­si­fi­cando. E non può essere la deci­sione del singolo.

Un modo per abbat­tere il sistema di cui parla è il codice iden­ti­fi­ca­tivo per gli agenti, la cui appro­va­zione trova però sem­pre molta resi­stenza. A cosa è dovuta?

Ho par­lato più volte con i respon­sa­bili delle forze dell’ordine e l’opposizione è sem­pre una: il rischio che l’agente possa in qual­che modo vedere messa in peri­colo la pro­pria inco­lu­mità. A me sem­bra una cosa non reale. Il codice iden­ti­fi­ca­tivo lo pos­siamo anche cam­biare o far ruo­tare con una certa faci­lità e si pos­sono tenere molto segrete le moda­lità di decrip­ta­zione facendo in modo che siano frui­bili solo da parte dell’autorità giu­di­zia­ria. Gli agenti repli­cano dicendo di temere comun­que di diven­tare dei ber­sa­gli. Mi sem­bra l’espressione di una cul­tura arre­trata. Io parto da un prin­ci­pio: la tra­spa­renza non è solo mas­sima garan­zia di lega­lità, ma anche mas­sima garan­zia di tutela per chi agi­sce in un lavoro dif­fi­cile come quello delle forze dell’ordine. Più si è tra­spa­renti meglio è anche per le forze dell’ordine, che così ven­gono tute­late rispetto ad accuse ingiu­ste. Ma il mes­sag­gio che invece passa sem­pre è che l’opacità garan­ti­sce, tutela. L’opacità non garan­ti­sce niente e nes­suno, nean­che le forze dell’ordine.

Lei ha par­lato di cul­ture arre­trate. Ma c’è una cul­tura di vio­lenza tra le forze dell’ordine e, quindi, di impunità?

Più che di vio­lenza par­le­rei pro­prio di impu­nità. Quando devi fare delle pro­mo­zioni e sce­gli di pro­muo­vere agenti che sono sotto inchie­sta per vio­lenza e mal­trat­ta­mento di per­sone in custo­dia, mandi un segnale cul­tu­rale al gio­vane agente che è dirompente.

Da Stra­sburgo arriva anche l’accusa all’Italia di non avere una legi­sla­zione ade­guata, e il rife­ri­mento espli­cito è al reato di tortura.

Ricor­dia­moci che sol­tanto quat­tro anni fa, quando ci fu da parte dell’Onu la pre­ce­dente revi­sione degli obbli­ghi rela­tivi ai diritti umani da parte del nostro paese, ancora una volta l’Italia si pre­sentò a Gine­vra dicendo che da noi non c’è biso­gno di isti­tuire il reato di tor­tura, per­ché esi­stono altre fat­ti­spe­cie che per­met­tono di per­se­guire le con­dotte vio­lente. Da allora abbiamo avuto una serie di prove tan­gi­bili che que­sto non è vero e abbiamo visto come per­se­guire con figure di reato deboli esponga alla prescrizione.

C’è quindi il rischio che epi­sodi simili si ripetano?

Sì. Credo e spero che Genova sia stata il punto di caduta più basso di un trend. Ma a livello di sin­goli indi­vi­dui può sem­pre capi­tare. E poi penso che ci sia anche molta dimen­ti­canza da parte dell’opinione pubblica.

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