Verità e giu­sti­zia: è que­sto che chiede L’Aquila a sei anni dal ter­re­moto. E lo fa in silen­zio, ma deter­mi­nata, nella fiac­co­lata di com­me­mo­ra­zione delle vit­time. Magliette e pet­to­rine con su scritto: «6 aprile 2009. Il fatto non sus­si­ste». E uno stri­scione: «Il fatto non sus­si­ste, ma uccide». L’Aquila col cuore, un unico pen­siero: con­tro l’assoluzione dei mem­bri della Com­mis­sione grandi rischi che, appo­si­ta­mente con­vo­cata, si riunì in città il 31 marzo del 2009, una set­ti­mana prima della catastrofe.

Un incon­tro che doveva ser­vire e che venne usato «per tran­quil­liz­zare la popo­la­zione» che era allar­mata per­ché dall’autunno pre­ce­dente le scosse si sus­se­gui­vano insi­stenti e sem­pre più forti. «Nes­sun peri­colo — fu loro detto al ter­mine del con­sulto — e soprat­tutto non ci sarà un sisma distrut­tivo». Invece un pugno di giorni dopo, alle 3.32, fu il dramma: 309 morti, 1.500 feriti, danni per oltre 10 miliardi e oltre 60 mila sfol­lati. Ci sono stati i pro­cessi: in primo grado i 7 com­po­nenti della com­mis­sione sono stati con­dan­nati a 6 anni di car­cere; in appello tutti assolti (tranne Ber­nardo De Ber­nar­di­nis, che all’epoca era il vice del capo della Pro­te­zione civile, Guido Ber­to­laso, e al quale sono stati inflitti due anni). Ora per que­sta vicenda è stato pro­po­sto ricorso in Cas­sa­zione. L’Aquila non ammette e non accetta quelle asso­lu­zioni. «Una tra­ge­dia impu­nita», afferma Mau­ri­zio Cora, avvo­cato che nel disa­stro ha perso la moglie Patri­zia e le due figlie, Ales­san­dra di 22 anni e Anto­nella di 27. «Chie­de­remo giu­sti­zia fino a quando non la otter­remo, per­ché uno Stato che si autoas­solve di fronte alle respon­sa­bi­lità che non si assume, va com­bat­tuto, in tutte le maniere lecite. Biso­gna farlo, per­ché quella dell’Aquila è una delle tante stragi ita­liane senza col­pe­voli. Qui non c’entra solo il ter­re­moto, che è stata una con­causa. Die­tro al ter­re­moto c’è stata la mano dell’uomo e di tutta un’organizzazione sta­tale che ha fal­lito, dai mas­simi livelli nazio­nali fino a quelli locali. E quindi non pos­siamo per­met­tere che que­sto Stato, che è una pio­vra, possa pas­sare incu­rante sulla fine di cen­ti­naia esseri umani. Non lo pos­siamo fare. E allora dob­biamo com­bat­terlo, usando gli stru­menti che abbiamo, e cioè la parola, cioè la dignità di ribel­larci. Que­sto — aggiunge Cora — è uno stato che non vuole cam­biare, lo dimo­stra la nomina a capo della Pro­te­zione civile di Fabri­zio Cur­cio, già uomo di Ber­to­laso, uno che è avvin­ghiato alla vicenda dell’Aquila per­ché era in quelle stanze a deci­dere della sorte di 70mila per­sone. Ce lo ritro­ve­remo sulla strada nel momento in cui si cele­brerà il pro­cesso in cui verrà impu­tato Ber­to­laso per la com­mis­sione Grandi Rischi. Lui andrà a testi­mo­niare non come fun­zio­na­rio della Pro­te­zione civile, ma come capo. Que­sta nomina — con­clude Cora — riporta agli anni bui, ad una Pro­te­zione civile farao­nica che ha pro­vo­cato quello che stiamo ricor­dando e denun­ciando». Nel 2009, infatti, il nuovo capo della Pro­te­zione civile par­lava con Ber­to­laso e si ado­pe­rava per zit­tire gli allarmi. Ecco le inter­cet­ta­zioni. Cur­cio: «Volevo avver­tirla che in Abruzzo, all’Aquila in par­ti­co­lare… C’è di nuovo quello scemo (Giam­paolo Giu­liani, ndr) che ha ini­ziato a dire che sta­notte ci sarà il ter­re­moto deva­stante». Ber­to­laso: «Eh». Cur­cio: «Noi stiamo cer­cando con Mauro (Dolce, capo uffi­cio rischio sismico della Pro­te­zione civile, ndr) di far fare un comu­ni­cato all’Ingv… In modo che siano loro a defi­nire que­sta cosa, per­ché all’Aquila si è svi­lup­pata un’ansia bestiale. C’è insomma parec­chio movi­mento, tele­gior­nali e quant’altro».

E L’Aquila non per­dona e non dimen­tica. «Ci sono quelli — afferma Maria Gra­zia Pic­ci­nini, avvo­cato e mamma di Ila­ria Ram­baldi, stu­den­tessa rima­sta uccisa sotto le mace­rie — che tra­su­dano san­gue, ipo­cri­sia e vigliac­che­ria e che pre­miano con una bella asso­lu­zione per­ché “il fatto non sus­si­ste”. E ci sono gli altri, che non si arren­dono a farsi pren­dere a schiaffi, a non rice­vere rispo­ste alle domande e che pen­sano e si ado­pe­rano per otte­nere giu­sti­zia. E tutto men­tre il dolore, batte, sbatte, scuote, trita, urla e tace nello stesso tempo».

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