di Maria Pellegrini

 

Nel recente articolo (Umbrialeft, 25 marzo) “La borsetta della matrona etrusca e il beauty-case rotto e ricostruito”, E. C. Bertoldi riporta la notizia di un’urna etrusca  esposta a Bratislava nella mostra “Gli Etruschi di Perugia” e ponendo l’attenzione su una figura femminile (scolpita sull’urna), un’ancella che tiene stretta nella mano una borsetta contenente probabilmente tutto il ‘necessaire’ per la toilette della padrona, ci ricorda che anche in altre tombe in territorio umbro tra il corredo funebre sono stati trovati pettini, specchi, unguentari, boccette di profumi che testimoniano che “le donne si sono sempre curate, un pochino più degli uomini, della loro immagine, della loro bellezza. Statue, mosaici, affreschi sottolineano a iosa questo aspetto particolare della femminilità. E se non bastasse sarebbe sufficiente leggere l’Ars Amatoria di Ovidio per convincersene”.

Spesso accade che la citazione di un libro, che pure conosciamo, ci spinga a riprenderlo in mano e a rileggerlo. L’Ars amatoria di Ovidio è un vero e proprio manuale giocoso e arguto sull’arte della seduzione, nel quale sono esposte le tecniche della conquista amorosa. L’intento del poeta, che definì se stesso “tenerorum lusor amorum” (cantore di teneri amori) è già nei primi versi: “Se qualcuno tra i miei concittadini non conosce l’arte di amare / legga questi miei versi, e solo allora potrà amare da intenditore”. Dei tre libri di cui si compone l’Ars amatoria, il primo contiene insegnamenti sulle tecniche che gli aspiranti seduttori devono seguire per conquistare l’animo femminile: primo obbiettivo è trovare l’oggetto del proprio amore che sarà più facilmente reperibile nelle piazze e nei portici di Roma, nel Foro o nel teatro. Lo sforzo successivo è conquistare la donna prescelta attraverso messaggi fatti recapitare dalla schiava con parole idonee, poi con incontri galanti. L’amore dunque è ricerca, conquista, perché “ogni amante è un soldato” e l’amore è la sua conquista. Ma il seduttore deve essere anche un cacciatore e saper “tendere le sue reti”.

Il libro ricalca il genere del poema didascalico, ne è quasi una parodia: il poeta indica le arti, per sedurre una donna, e per rendere duratura quella conquista. Cercare di conservare l’amore per lungo tempo è infatti l’oggetto del secondo libro. L’amore di cui parla Ovidio non genera drammi e tanto meno tragedie: “Nulla se non amori voluttuosi qui da me s’impara”. Per lui l’amore non è passione che travolge come per i suoi grandi predecessori elegiaci, è un gioco raffinato in cui la ragione è più importante del cuore. Il presupposto è che l’amore sia una tattica galante, un gioco sensuale, un’arte e, come tutte le altre arti, risponda a un codice di regole. Al centro del libro c’è l’amore, ma è trattato in modo dissacratorio: si esortano gli amanti a diffidare della sincerità, e a preferire l’arte di fingere: “Devi fare l’innamorato, simulare a parole le ferite d’amore”. “Non importa se sarai costretto a mentire / Giove dall’alto ride degli spergiuri degli amanti / e ai venti di Eolo comanda di disperderli nel nulla”.

Tutto si basa sull’inganno, le donne sono le prime ad ingannare, dunque: “Ingannate chi vi inganna”, raccomanda il poeta agli uomini, ma anche alle donne dà simili consigli: “Secondo me è concesso respingere una frode con la frode, / anche la legge consente di armarsi contro chi è armato”, e con sapienza psicologica aggiunge: “Fateci credere di essere amati, è facile per voi”.

Nel terzo libro, riservato alle donne che vogliono mantenere vivo l’amore dell’uomo, Ovidio consiglia come rendere più seducente il proprio aspetto. La cura del corpo per apparire sempre piacevoli è una condizione necessaria. Non si deve mirare soltanto all’esaltazione di ciò che è bello, ma soprattutto all’occultamento di ciò che è brutto o difettoso. Non mancano consigli sulla pettinatura e l’abbigliamento. La bellezza però deve essere unita anche all’amabilità del conversare, al saper danzare, a partecipare a giochi di società, al saper smussare gli spigoli del carattere, a saper essere allegre perché “le donne tristi sono antipatiche”. Arriva anche a consigliare: “Nella stanza da letto che la luce non entri a imposte aperte / molte cose del vostro corpo è meglio celare” e “mantenete nascoste le infedeltà, suscitate la gelosia dell’amato”.  Il poeta ci tiene a essere ricordato maestro delle giovani amanti tanto che nel distico finale sottolinea la sua funzione: “Le donne, mie seguaci, scrivano sulle spoglie: Fu Ovidio il mio maestro”.

L’Arte di amare è un affresco della vita galante e mondana di Roma, dei portici affollati, dei banchetti sontuosi, delle pause alle terme, degli svaghi ai teatri e dei costumi raffinati che in quegli anni Augusto cercava di moralizzare.

La poesia di Ovidio rappresenta una sorta di resistenza passiva e di assoluta estraneità alla restaurazione moralista e tradizionalista di Augusto. La vocazione libertina di Ovidio è prepotente e insieme aggraziata. I toni del suo poetare sono sempre lievi, i versi corrono limpidi e fluidi. Con quest’opera, un capolavoro di malizia leggera, egli diviene il beniamino dei circoli mondani e raffinati di Roma. Da maestro dell’arte amatoria scriverà anche un libretto per esporre alle donne i modi per curare la bellezza: “Medicamenta faciei femineae” (Cosmesi del volto femminile). Questo breve trattato poetico è il più antico “elogio dei cosmetici”.

La cosmesi, avversata dalla cultura greca e romana come arte della contraffazione e dell’inganno, come tecnica cortigiana della seduzione, trova in Ovidio il suo più brillante difensore. Contro i pregiudizi moralistici egli legittima le pratiche cosmetiche, considerandole la naturale manifestazione dell’istintivo desiderio di farsi belli e di piacere, e costituisce in questo senso un prezioso corollario a quell’arte di amare e di farsi amare da lui indicata.

Già nel mondo greco la cosmesi è condannata come arte della contraffazione e dell’inganno. Platone considera la cosmesi “pratica viziosa, fraudolenta, ignobile, indegna di un uomo libero che, per mezzo di trucchi, di colori, di lisciature e di abbigliamenti, inganna e fa sì che molta gente, rivestendosi di una bellezza che non le appartiene, trascura quella che le è propria”.

I Romani imparano a curare il loro aspetto fisico dopo la conquista della Grecia (146 a.C.), assumendo dai Greci le relative usanze. Profumi, cosmetici e belletti si diffondono così nel mondo romano, trovando nell’età imperiale grandissimo uso nonostante l’opposizione dei moralisti legati a modelli comportamentali tradizionalisti e anti-ellenici. La matrona dell’impero è ritratta carica di trucco e di gioielli e vestita in modo ricco e sfarzoso, come ricca e sfarzosa è la Roma dell’età imperiale.

Nella poesia elegiaca i poeti d’amore cercano di dissuadere la propria donna dall’uso di prodotti di bellezza, considerati valori negativi come il lusso e le pietre preziose. È meglio seguire la semplicità della natura. La bellezza non ha bisogno di artifici, dice Properzio alla sua donna: “Credimi la tua persona non necessita di cure ricercate, / il nudo Amore non ama la bellezza artificiosa./ Guarda di quali colori germogli la lussureggiante terra, / come vengano meglio le edere spontanee.” Quando Cinzia decide di tingersi i capelli, egli esclama: “Ora, o dissennata, imiti anche i Britanni con il volto dipinto / e ti diverti a colorarti i capelli d’uno splendore straniero? / Tutti gli aspetti sono buoni secondo le disposizioni della natura”.

Ovidio invece, contro la morale comune, decide di scrivere un poemetto dedicato alla cosmesi raccomandando tutti quegli accorgimenti che siano necessari ad esaltare la propria bellezza. Dissacra il mito della matrona romana cantata da chi loda il buon tempo antico, intenta a “tessere  dure tele”, alle fatiche dei campi, alla cura dei figli, e la mette a confronto con quella dei suoi tempi esortando così le donne: “le vostre madri vi generarono figlie capricciose: pretendete / che il vostro corpo sia coperto da una veste intessuta d’oro / pretendete di porgere una mano che attiri gli sguardi per gemme preziose./ Appendete intorno al collo pietre fatte venire dall’Oriente/ pesanti a tal punto che sarebbe faticoso reggerle all’orecchio./ Ma non c’è da indignarsi, giusta è la vostra voglia di piacere / in un tempo che vuole raffinato anche l’uomo. / Sono i vostri mariti raffinati allo stesso modo delle donne”.

Per avvalorare la sua tesi ricorre a un esempio del mondo animale. Le donne si fanno belle perché piacere a se stessi è motivo di gioia, come fa il pavone (uccello sacro alla dea Giunone): “L’uccello di Giunone apre le piume che l’uomo ammira / e in silenzio di quella bellezza va superbo”. La natura stessa, dunque, legittima il desiderio della donna di migliorare il proprio aspetto per essere più desiderabile. Seguono cinque ricette con ingredienti naturali: orzo, uova, bulbi di narciso, cipolla, miele, lupini, ed altro ancora, e ne sono indicati la quantità e i procedimenti per amalgamarli.  Spalmando l’impasto ottenuto sul viso, questo acquisterà luminosità.

Tutti gli autori di età augustea, anche i più grandi, sono ossessionati  dal ricordo e dal culto degli antenati, dei valori del passato, oltre che, talvolta, da sottaciute nostalgie repubblicane. Ovidio è figlio del suo tempo e non è tempo di alti valori. Augusto si sforza di resuscitarli senza riuscirvi. Quanto alla restaurazione morale, com’è noto, scarsi furono i suoi successi, vide il libertinaggio disinvoltamente praticato dalle due Giulie della sua stessa famiglia. Ovidio non ha rovelli morali, si mostra indipendente dall’ideologia restauratrice augustea, si potrebbe forse dire che è addirittura un po’ cinico, e che di tale indifferenza etica egli sostanzia la sua poesia. 

Condividi