Idi di marzo
di Maria Pellegrini
Il 15 Marzo del 44 a. C. (Idi di Marzo per l’antico calendario romano), a cinquantasei anni nel pieno della vita e della gloria, Gaio Giulio Cesare cadde sotto il pugnale dei congiurati. L’ideatore della congiura fu C. Cassio - un pompeiano passato nelle file di Cesare, poi deluso anche da Cesare - il quale conquistò subito alla sua causa i due Bruti, Marco Giunio Bruto, da tutti stimato per la sua serietà e il suo rigore filosofico e culturale, e Decimo Bruto, che era stato a fianco di Cesare durante le campagne di Gallia. Altri congiurati di spicco furono C. Trebonio, che da Cesare aveva avuto molti incarichi di fiducia, C. Pansa, Oppio, uomi di fiducia di Cesare in Roma durante la resa finale dei conti con i pompeiani. Molti altri dei congiurati erano invece legati al ricordo di Pompeo: tra di essi Q. Ligario, che aveva preso parte alle prime campagne della guerra civile, e che Cesare in seguito aveva risparmiato.
Vennero fatti vari piani per sopprimere il dittatore: trucidarlo nel Campo Marzio durante la votazione delle tribù; assalirlo sulla via Sacra o mentre entrava in teatro; infine fu deciso di aggredirlo nella Curia, di cui era stata convocata una seduta per il 15 marzo.
L’evento efferato è così narrato da Plutarco:
“Come Cesare fece il suo ingresso nell’aula, il Senato si alzò in piedi in segno di omaggio. Alcuni dei compagni di Bruto si disposero in cerchio dietro il suo scranno, mentre altri gli andarono incontro fingendo di unirsi alla supplica che Tillio Cimbro gli rivolgeva perché volesse richiamare un suo fratello esule dall’esilio. Così pregando tutti insieme lo seguirono fino al suo scranno. Una volta seduto, Cesare respinse le loro suppliche e si adirò per l'insistenza dei postulanti. Ma a un certo punto Tillio gli afferrò la toga con ambedue le mani e gliela fece scendere dal collo. Era il segnale che avevano concertato per passare all’azione. Il primo a colpirlo fu Casca, che lo colpì con la spada alla gola: colpo debole e non mortale […],Quelli fra i senatori che nulla sapevano della congiura, rimasero immobilizzati dalla sorpresa e dal terrore per quanto vedevano accadere davanti ai loro occhi. Non ardirono fuggire, né soccorrere Cesare: che dico, non ebbero neanche la forza di gettare un grido. Gli altri invece, quelli che avevano complottato per uccidere, levarono le spade nude in mano e lo circondarono. Dovunque Cesare volgesse lo sguardo, trovava un ferro diretto a colpirlo al viso, e agli occhi. Inseguito qua e là come una fiera, rimase impigliato in tutte quelle mani, poiché ognuno voleva partecipare al sacrificio e gustarne il sangue. Bruto stesso gli vibrò un colpo. Alcuni storici raccontano che Cesare cercò di evitare gli altri colpi traendo il suo corpo or qua or là per la sala e gridando a squarciagola; ma quando vide Bruto con la spada sguainata in mano, tirò giù il mantello e si accasciò, fosse un caso, o fossero stati gli assassini a spingervelo intenzionalmente, contro il piedistallo su cui era poggiata la statua di Pompeo, che fu inondata di sangue, sicché parve che Pompeo stesso avesse guidato la punizione del rivale, disteso ai suoi piedi e scosso dagli spasimi della morte per il gran numero di ferite che aveva ricevuto: si tramanda che furono ben ventitré.”
Il racconto di Svetonio non si discosta molto da quello di Plutarco, ma aggiunge un particolare di intensa drammaticità: quando Cesare si accorse che tra i congiurati vi era anche Giunio Bruto, esclamò: “Anche tu, ragazzo mio?” Questa frase, pronunciata in greco, fece sorgere nei posteri il dubbio che Bruto, figlio di Servilia, amante prediletta da Cesare, fosse davvero figlio del dittatore. Molti lo ritennero possibile.
Dunque, malgrado i presagi e gli avvertimenti, Cesare era entrato nella Curia, e si era quasi offerto al pugnale dei congiurati. Invece che rafforzare la sicurezza della propria persona, pochi giorni prima di quelle fatidiche Idi di marzo, aveva licenziato le sue guardie del corpo, e a chi lo esortava alla prudenza e a munirsi di adeguata protezione armata, era solito rispondere che riteneva la benevolenza dei cittadini la più leale e sicura difesa: confidava nel fatto che la sua vita fosse necessaria alla stabilità dello Stato, e che la sua morte avrebbe causato invece soltanto nuove guerre civili. E non sbagliava.
Alcuni storici antichi ritennero che l’imprudenza di Cesare derivasse anche da una sorta di tedio della vita e del potere che s’era impossessato di lui, anche di fronte alla vastità dei problemi sorti nell’attuazione del suo audace programma riformatore. Ma non fu tanto per stanchezza di vivere, che Cesare evitò di dedicare a se stesso quella vigilanza e prudenza che aveva sempre rivolto ai dettagli di ogni sua azione, quanto per la consapevolezza che la propria persona costituiva il simbolo della gigantesca e rischiosa costruzione politica da lui messa in atto, e che quindi coprirsi troppo, circondarsi di armati, avrebbe significato riconoscere la debolezza di quella politica e confessarne l’impopolarità. Con un eccesso di convinzione che sconfinava nell’illusione, Cesare pensava che le sue riforme, così razionali, e in fondo moderate, corrispondessero all’interesse generale e dunque non potessero che suscitare il consenso anche dei suoi avversari. Sentiva il suo potere, ormai pressoché assoluto, giustificato dalla necessità oggettiva di costruire un organismo politico-amministrativo più adeguato alle esigenze di un grande impero quale era divenuto quello di Roma.
Consapevole di interpretare le spinte progressive del suo tempo, si era assunto il compito di ricomporre il conflitto fra il vecchio e il nuovo, limitandosi a isolare il nucleo della opposizione conservatrice più intransigente. Perciò egli aveva messo in atto una riforma dello Stato mirante non già a distruggere il regime consolidato da decenni e secoli, bensì a modernizzarlo. Non gli sembrava più concepibile che un gruppo di famiglie aristocratiche amministrasse, secondo i propri egoistici interessi, territori e popoli che costituivano una delle più vaste formazioni etniche e politiche della storia. Aveva voluto limitare la netta divisione tra l’Italia e le province e creare in tutte le regioni dell’impero una classe che godesse degli stessi diritti dei cittadini romani in Italia.
Il suo grande ideale era stato l’unificazione e romanizzazione del vasto impero, non attraverso un sovvertimento della gerarchia delle classi sociali, ma liquidando gli elementi più ottusamente reazionari che si opponevano alle necessarie riforme. Lo stesso spirito lo aveva ispirato nella riforma del Senato, che divenne rappresentativo non solo di Roma e dell’Italia, ma anche di alcune parti dell’impero, prima fra tutte la Gallia: a tal fine vi aveva immesso suoi amici e fautori fedeli senza badare alla loro origine o carriera politica, oltre a un certo numero di notabili non italici.
V’era indubbiamente nel nuovo regime la forte limitazione delle libertà repubblicane - la carica di “dittatore perpetuo” assunta da Cesare ne costituiva la prova -. Un mutamento così radicale toglieva forza e potere all’ordine senatorio poco incline a cedere privilegi dei quali aveva goduto per secoli, e non poteva dunque essere accettato da quella classe dirigente senza combattere con ogni mezzo per impedirlo. Anche se Cesare aveva pubblicamente rifiutato la corona di re, di fatto il suo era un potere monarchico: nelle mani di un solo capo erano concentrati, infatti, i supremi poteri - militare, giudiziario e amministrativo -, la supremazia religiosa, il diritto di emanare decreti; il senato, che Cesare aveva ampliato portando da seicento a novecento il numero dei senatori, immettendovi ufficiali del suo esercito, e persino centurioni, era divenuto uno strumento nelle sue mani che ne avevano fatto un esclusivo organo di consiglio, riducendone drasticamente la funzione legislativa.
Cesare aveva così potuto esercitare, anche se per una breve stagione, il suo potere in modo assoluto e incontrastato. Tornato a Roma, dopo la definitiva vittoria su Pompeo, suo ex alleato, e sui pompeiani, oltre alla dittatura perpetua gli era stata accordata la potestà tribunizia a vita, in virtù della quale la sua persona diveniva “sacra e inviolabile”; aveva anche potuto fregiarsi del titolo di “imperator”, cioè comandante di tutte le forze armate. Tuttavia egli non volle ricorrere ai metodi di Mario e Silla, cioè all’eliminazione fisica di quanti avevano combattuto contro di lui o fossero sospettati di essergli ostili. Evitando il periodo del terrore, che generalmente segue ogni rivoluzione o guerra civile, preferì usare le armi della clemenza, piuttosto che quelle della giustizia sommaria e delle proscrizioni.
In campo economico la politica cesariana era ispirata a una moderazione che stabiliva un rischioso equilibrio fra ceti abbienti e moltitudini di poveri o impoveriti: la cancellazione dei debiti contratti da una turba di persone rovinate dalla continua instabilità politica non venne concessa, ma i ricchi dovettero rinunciare a esigere gli interessi maturati sui prestiti e talvolta anche agli importi accumulati per insolvenza degli affittuari.
La nomina di “uomini nuovi” nel Senato, la concessione della cittadinanza a varie popolazioni delle province e la concessione di terreni demaniali ai contadini poveri e ai veterani, il rifiuto di riconoscere gli sfacciati privilegi della classe sino allora dominante, furono tutti elementi che contribuirono a spingere all’azione i gruppi più retrivi e aggressivi degli oppositori aristocratici, i quali organizzarono la congiura che spense la vita del “tiranno”, il quale tuttavia aveva dato loro responsabilità e credito, sperando, ma senza troppe illusioni, che, a scapito di quelli che potevano essere i particolari interessi di clientela o di casta, quegli uomini sapessero uniformarsi alle esigenze di tutto lo Stato razionalmente riordinato. Fu proprio per questa speranza di poter mediare fra opposti interessi, che la politica riformista perdette il suo grande ideatore e artefice.
Alcuni storici antichi testimoniano un inasprimento del carattere di Cesare negli ultimi anni della sua vita, un irrigidirsi in atteggiamenti intolleranti vicini al dispotismo, forse per delusione della capacità persuasiva della sua politica. Il fatto che nell’ultimo periodo della sua gestione “monarchica” dello Stato egli andasse ulteriormente accentrando e irrigidendo il suo potere, testimonia indubbiamente una deroga dall’almeno formale legalitarismo più volte ostentato. Ciò accrebbe fra gli aristocratici la convinzione che egli mirasse a una monarchia di tipo orientale: la presenza a Roma di Cleopatra - che Cesare aveva voluto presso di sé e dalla quale aveva avuto un figlio, Cesarione - aveva rafforzato i sospetti: circolava anche la voce, certamente infondata, che Cesare volesse trasferirsi ad Alessandria portando con sé tutte le ricchezze dell’impero. Per tutti questi motivi il gruppo dei congiurati affrettò i tempi del sanguinoso progetto.
L’euforia dei congiurati, dopo l’assassinio di Cesare era durata poco più di un giorno: essi avrebbero voluto gettare il corpo di Cesare nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare le sue leggi. Si erano illusi che il popolo approvasse con entusiasmo la soppressione del “tiranno” e che il potere tornasse di nuovo interamente nelle mani del Senato. Ma la plebe non li seguì, conquistata dalla generosità di Cesare: infatti nel suo testamento, reso pubblico da Marco Antonio, al popolo erano destinati i vasti giardini presso il Tevere e trecento sesterzi ad ogni cittadino. Quindi, contro il parere dei congiurati, il letto funebre fu portato nel Foro, davanti ai Rostri. E quando fu esposta su di esso la salma di Cesare con la veste insanguinata, esplose finalmente l’ira contro gli uccisori. Ma Antonio contenne la furia popolare. Egli seppe sfruttare a proprio vantaggio la grande emozione suscitata dalla morte di Cesare; non manifestò volontà di vendetta nei confronti dei cesaricidi e mostrò per loro, almeno per il momento, grande rispetto; pretese soltanto che essi non interferissero con la sua decisione di assumere un posto di primo piano nella repubblica restaurata, e riconoscessero la necessità di una loro temporanea assenza da Roma al fine di salvaguardare la concordia politica e l’ordine pubblico.
Le Idi di Marzo hanno ispirato in ogni epoca opere di poeti, scrittori e artisti.
Mi piace ricordarne almeno due: la tragedia “Giulio Cesare” di Shakespeare (di cui riporto qui i discorsi che l’Autore immagina siano stati pronunciati da Bruto e Marco Antonio davanti alla salma di Cesare) e il film-documentario “Cesare deve morire” girato dai fratelli Taviani nel 2012 nel carcere di Rebibbia.
Dal dramma di Shakespeare (atto III, scena II)
Bruto: “Se vi è alcuno qui in questa assemblea, alcuno amico di Cesare, a lui io dico che l’amore di Bruto per Cesare non era minore al suo. Se poi quell’amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare, questa è la mia risposta: io amavo Cesare, ma amavo Roma di più. Preferireste che Cesare fosse vivo, e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io l’onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l’ho ucciso: vi sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione”.
Marco Antonio: “Se avete lacrime, preparatevi a spargerle adesso. Tutti conoscete questo mantello: io ricordo la prima volta che Cesare lo indossò; era una serata estiva, nella sua tenda, il giorno in cui sconfisse i Nervii: guardate, qui il pugnale di Cassio l’ha trapassato, mirate lo strappo che Casca nel suo odio vi ha fatto: attraverso questo il ben amato Bruto l’ha trafitto […] Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare: giudicate, o dèi, quanto caramente Cesare lo amasse! Questo fu il più crudele colpo di tutti, perché quando il nobile Cesare lo vide che feriva, l’ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, completamente lo sopraffece: allora si spezzò il suo gran cuore; e, nascondendo il volto nel mantello, proprio alla base della statua di Pompeo, che per tutto il tempo s’irrorava di sangue, il gran Cesare cadde. Oh, qual caduta fu quella, miei compatriotti! Allora io e voi, e tutti noi cademmo, mentre il sanguinoso tradimento trionfava sopra di noi. Oh, ora voi piangete; e, m’accorgo, voi sentite il morso della pietà: queste son generose gocce. Anime gentili, come? piangete quando non vedete ferita che la veste di Cesare? Guardate qui, eccolo lui stesso, straziato, come vedete, dai traditori”.
“Cesare deve morire” è un film-documento del 2012 diretto da Paolo e Vittorio Taviani. Si narra la messa in scena del “Giulio Cesare” di Shakespeare da parte dei detenuti del braccio di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. Gli interpreti sono uomini che hanno sulle spalle pene che vanno fino all’ergastolo per delitti di mafia, camorra e per crimini orrendi. I concetti di potere, tradimento, congiura, omicidio sono parte dell’esperienza dei carcerati, parte del loro dramma così come quello dei personaggi di Shakespeare. Le vicende della Storia riproducono, dunque, solo in scala e in contesti diversi, quelle delle vite di tutti. I Taviani, oltre che riprendere le prove e lo spettacolo, cercano di raccontarci anche le lunghe ore affrontate dai detenuti in cella, tra sconforto, nostalgia dei familiari e litigi coi compagni e altri aspetti della vita in carcere che ancora molti di noi non conoscono, tanto che restano inascoltati anche dai governanti gli appelli e i richiami che da più parti arrivano affinché si rendano più umane le condizioni di vita di chi sta scontando una pena per il crimine commesso..

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