Il bello dell'angoscia
di Cinzia Dal Maso
Cinquanta imperatori in cent’anni, morti quasi tutti per mano assassina: che altro dire per illustrare il Terzo secolo d.C., l’epoca più concitata della storia dell’Impero romano? L’età della crisi. Crisi politica: scomparvero le dinastie imperiali e gli imperatori furono poco più che fantocci in mano agli eserciti. Crisi istituzionale: le numerose riforme corrosero a poco a poco le fondamenta del governo e dell’esercito di Roma. Crisi economica, tra svalutazioni monetarie, guerre esterne e civili, e l’Impero che non garantiva più sicurezza. Crisi sociale, tra comunità disgregate, carestie, epidemie, e disperati migranti in cerca di fortuna.
Fu "L’età dell’angoscia", come recita il titolo della mostra in corso ai Museo Capitolini a Roma, richiamandosi alla famosa opera di Eric Dodds. Un titolo poco invitante, in questi nostri tempi che ricordano per molti aspetti le crisi antiche. E non del tutto calzante, come la mostra spiega molto bene: i curatori Eugenio La Rocca, Annalisa Lo Monaco e Claudio Parisi Presicce aggiungono che fu anche, e soprattutto, l’età dell’ambizione.
Durante le crisi la ricchezza non svanisce ma si distribuisce diversamente, concentrandosi in poche mani. Il Terzo fu il secolo delle grandi ricchezze private e delle proprietà fondiarie che s’ingrandivano a dismisura. Il secolo della decadenza dell’edilizia pubblica a vantaggio del lusso privato: ci sono in mostra argenterie sontuose, oltre agli eleganti affreschi da una dimora da via Nazionale a Roma da troppo tempo chiusi nell’Antiquarium comunale. E i modellini dal Museo della civiltà romana (tuttora chiuso) mostrano una Roma che cercò sempre più di catturare la popolazione con spettacoli e le terme più grandi e belle dell’antichità. Ma anche una città che si riempì di caserme per mantenere un ordine pubblico difficile, e che Aureliano cinse di potenti mura per proteggerla come mai prima. Una città sempre meno “capitale”, in un’Italia sempre meno centrale rispetto all’Impero.
Dopo l’editto di Caracalla del 212 d.C. tutti i cittadini dell’Impero godettero degli stessi diritti, e con Diocleziano alla fine del secolo l’Italia non fu che una delle sue molte province. Fu anche il secolo del boom dei cosiddetti “culti orientali”, primo fra tutti il Cristianesimo che subì le persecuzioni più dure. E poi Mitra, Sabazio, Giove Dolicheno, Iside, Cibele: tutti culti molto antichi - si osserva in una ricca sezione della mostra - che nel III secolo hanno sicuramente fornito risposte alle inquietudini e ai pressanti bisogni di salvezza personale. Forse, però, la loro ampia diffusione in occidente è dovuta anche ai molti “migranti” che da un capo all’altro dell’Impero portavano con sé il proprio credo. Chi meglio di noi, oggi, può comprendere ciò?
L’ambizione del secolo, tuttavia, si vede soprattutto nei ritratti: sempre più gente comune amò farsi ritrarre in vesti divine o eroiche, come Ercole, Onfale o Venere. E gli imperatori - personaggi disposti a tutto per acquisire un potere che sapevano essere comunque precario – si astraevano sempre più dagli umani a rappresentare col proprio ritratto quel potere assoluto che di fatto non avevano. I loro tratti diventavano sempre meno realistici e più schematizzati, con gli occhi sporgenti e rivolti verso l’alto a significare il loro essere come un dio, simbolo della Roma eterna.
La mostra si apre con una galleria di ritratti, come oramai consuetudine nella serie di mostre "I giorni di Roma" di cui questo è il quarto appuntamento.
Se altre volte, però, la selva di volti rischiava di parlare poco al visitatore, in questo caso cattura a prima vista. In un allestimento realmente spettacolare, scorrono i “grandi” del secolo in ordine cronologico, e si è spinti a scoprirne le gesta, a capire quale esercito li ha acclamati e quale ne ha decretato la fine. E nonostante le schematizzazioni e gli occhi tutti uguali, paiono avere più carattere dei loro più duraturi predecessori: allora si viveva d’immagine molto più che di sostanza.
Tra tanti volti “sognanti”, spicca sicuramente l’enorme statua bronzea di Triboniano Gallo dal Metropolitan, ma lo sguardo si posa curioso soprattutto sui raffinati filosofi in trono – il giovane, l’uomo maturo e l’anziano - dalla villa di Dioniso a Dion in Macedonia. Oppure su alcuni volti di gente comune, benestanti che si facevano ritrarre come filosofi: mostrano, palpabile, tutto il "dolore di vivere" del secolo.
Fonte: Il Sole 24 Ore Domenica

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