di Maria Pellegrini

 

L’aggettivo latino “classicus” designava in origine l’appartenenza a una delle cinque classi in cui Servio Tullio, sesto e penultimo re di Roma, aveva suddiviso  i cittadini Romani, in base al censo. Alla prima classe appartenevano i più ricchi, all’ultima i nullatenenti. Proporzionalmente al loro patrimonio, i cittadini dovevano contribuire alle spese degli armamenti, ma proporzionalmente partecipavano con maggiori vantaggi alla vita politica. Appartenere alla prima classe significava essere un cittadino patrimonialmente affidabile.

È nel III secolo d. C. che comincia a prevalere un’accezione di “classicus” nel senso di “autore di prima classe”. “Classicus” è inteso come ciò che vale, e in questo senso è rimasto anche nel lessico contemporaneo. “Classico” è per noi un testo che non è soggetto alle variazioni dei climi culturali e delle mode, il cui valore permane nel tempo e che ad ogni lettura o fruizione riserva la scoperta di nuovi significati. Con tale termine di solito si fa riferimento all’intera cultura antica, greca e latina.

 

Molti scrittori, studiosi, filosofi si sono chiesti: “Che cosa sono i classici?”

Citiamo alcuni autorevoli risposte extrapolate da saggi di scrittori italiani sull’argomento.

 

Per Umberto Eco, docente di semeiotica, illustre saggista e narratore, un “classico” è “un sopravvissuto, proprio in senso darwiniano: sopravvissuto a una selezione”. Per il filosofo Massimo Cacciari, l’aggettivo “classico” non indica qualcosa che “rimanda al passato, ma qualcosa che resiste al presente”. Per lo storico Luciano Canfora, è “un libro che non si lascia facilmente collocare, è un libro che non finisce quando lo si chiude con la sua ultima pagina, ma accompagna il suo lettore nel tempo e attraverso il tempo”. Per Italo Calvino è un libro “che non ha mai finito di dire quel che ha da dire […] e ci consente di capire chi siamo e dove siamo arrivati”.

 

Ogni scrittore è un momento della nostra storia e ha diritto al nostro interesse. Ma solo i grandi scrittori hanno arricchito la nostra conoscenza dell’uomo, ossia di noi stessi. Un “classico” è uno scrittore che ha parlato per noi, che in una certa epoca, in un momento della storia, si è fatto interprete di un’intera civiltà; è un autore che ci prende rapidamente, che ha detto cose che ci riguardano, ci toccano in profondità, un autore che è anche un’efficace chiave d’accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo; non è un modello immutabile, ma lo stimolo a un  confronto non solo fra antichi e moderni, ma anche fra diverse culture. Dunque possiamo dire che “classico” è un libro che ha superato i confini della propria epoca, ed in grado  di parlare con la stessa intensità a ogni generazione.

 

Genericamente per età classica si intende la civiltà greco-romana, e così anche quando si parla di attualità dei classici ci si riferisce soprattutto ai classici latini greci.

Lo studio degli autori antichi latini e greci, certo non epidermico, ma meditato, soggetto ai necessari riscontri, sostenuto dalla chiara intelligenza testuale, può sempre contribuire al miglioramento di ogni persona.

Il mondo antico ci educa alla complessità: se pensiamo al ruolo che hanno avuto le grandi civiltà del mondo antico, constatiamo che la nostra storia è il risultato di continue mediazioni fra le diverse culture: greca, latina, araba, cristiana.

L’eredità classica ci fa sentire comunità anche con il passato. Di fronte al dilagare della simultaneità i classici ci riportano al senso della storia, ci educano alla memoria.

Ma la nostra epoca è troppo innamorata dell’idea di modernità, e i classici greci e latini per la prima volta nella storia sono minacciati. Dobbiamo renderci conto di questa universale eredità, e difendere questo patrimonio che dura da millenni, e che seppur irripetibile mai potrà essere considerato un fatto concluso e senza elementi di continuità con il presente.

 

Alla domanda ricorrente se i classici siano attuali, lo scrittore italiano Giuseppe Pontiggia, che usava il termine di “attualità” nel senso di “ciò che attrae, che è interessante” e non nel senso di “essere alla moda”, provocatoriamente rispose: “Il problema non è se i classici sono attuali, ma se noi lo siamo rispetto a loro”.

Quello che ci turba nel rileggere i classici è constatare che noi continuiamo nei nostri errori senza avere capito la loro lezione. Pur affermando e sentendo la grande attualità dei classici, possiamo dire che “siamo noi a renderli  tragicamente inattuali”. (la frase è di Umberto Eco)

 

Per una corretta interpretazione dei classici di una lingua diversa dalla nostra, è molto importante una buona traduzione. La traduzione permette la comunicazione tra le culture, ed è l’unico mezzo per accedere a quanto è detto in altre lingue. Il traduttore può considerarsi un traghettatore che trasporta un messaggio da una sponda all’altra. È importante che  sull’altra sponda arrivi un messaggio comprensibile. Questo è il compito di chi traduce. L’essenza stessa della traduzione consiste nel riportare correttamente in una lingua ciò che si trova scritto in un’altra.

Ortega Y Gasset, filosofo e saggista spagnolo della prima metà del Novecento, parla di “miseria e splendore” della traduzione. Quando si altera il testo di partenza, per attualizzarlo, nel senso deteriore del termine, se ne realizza la “miseria”. Lo “splendore” emerge quando si riesce a coniugare la fedeltà del testo di partenza con l’efficacia e la freschezza di quello d’arrivo. È impossibile compiere una traduzione in modo corretto senza possedere una profonda conoscenza di entrambe le lingue. Si deve possedere, prima di tutto, una conoscenza della lingua da cui si traduce che non sia né superficiale né ordinaria, bensì ottenuta tramite la lettura di altri autori di quella stessa lingua ed anche dei modi di dire. Ci si deve avvicinare il più possibile al testo originale. Non esiste però un metro che misuri  questa vicinanza, né un criterio assoluto che sia valido per tutti i testi e tutti i traduttori. E sempre si corre il pericolo di tradire i propositi dell’autore o di rafforzare le sue intenzioni (di intensità, di tono, di sensibilità), di scegliere una chiave interpretativa non esatta, di adattare in modo inopportuno  un costrutto di una lingua alla costruzione lessicale di un’altra.

 

Si dice spesso che “tradurre” è uguale a “tradire”. Un fondo di ragione è in questa frase: tradurre da una lingua all’altra è un’operazione delicata di ricostruzione in cui entra in gioco la sensibilità del traduttore stesso, che interpreta e seleziona i tanti sensi che un testo veicola (sensi legati alla cultura, alla visione del mondo, ai valori dell’epoca e della persona che lo produssero) per restituirceli  in un’altra lingua. Eppure tradurre è un impagabile avventura dell’intelletto.

 

La traduzione letteraria degna di questo nome deve essere un’opera d’arte autonoma al pari dell’originale. È un atto creativo che richiede due soggetti: l’autore e il traduttore, che non sono mai fisicamente vicini, ma separati dalla distanza del tempo,  dello spazio,  della lingua.

La sua caratteristica consiste nella tensione creatrice rispetto a un originale preesistente.  Il traduttore, nel totale rispetto dell’autore originario, deve riplasmare il testo per un nuovo pubblico e dargli nuova vita. Chi ha avuto una qualche esperienza del tradurre può comprendere la grande emozione che si prova nel trovare le parole giuste e disporle seguendo la musica, il timbro, il ritmo che le accompagna. Ciò è tanto più entusiasmante e difficile quando si ha di fronte un testo poetico, per il quale il traduttore deve ricreare gli stessi ritmi, registri, suoni, e la stessa atmosfera di quello di partenza. Non sempre è possibile. È doveroso evitare un eccesso di slancio che induca a estrose modifiche del testo originale.

Ceronetti, brillante e talora dissacrante saggista e polemista contemporaneo, oltre che scrittore, poeta e traduttore di classici latini, scrive in una Nota a una sua traduzione di Catullo: “C’è sempre odore di animale abbattuto, dove ha avuto luogo il passaggio da una poesia all’altra”.

 

Lo scopo del traduttore è quello di cercare di portare il testo dalla lingua di origine alla lingua di destinazione in maniera tale da mantenere il più possibile inalterato il significato e lo stile del testo, ricorrendo, solo quando è necessario, anche a processi di adattamento. A causa delle differenze tra le lingue, spesso è difficile, se non impossibile (parecchi sono i sostenitori dell’intraducibilità di una lingua) conservare tanto il senso esatto quanto lo stile della scrittura. Vi sono poi situazioni in cui può essere necessario fare ricorso a note esplicative o a perifrasi; è il caso dei giochi di parole, o di parole che hanno la rima o si somigliano nella lingua originale, ma non in quella di destinazione, o di proverbi oppure di concetti tipici della lingua e della cultura d’origine che non hanno equivalenti diretti nella lingua di destinazione.

 

Contrariamente a quanti sostengono l’intraducibilità, nell’esperienza pratica i testi vengono di continuo tradotti da una lingua ad un’altra, per traducibili o intraducibili che siano. I testi sono più o meno difficili da tradurre secondo la loro natura e secondo l’esperienza e l’abilità del traduttore. Due campi in cui i testi rasentano maggiormente l’intraducibilità sono la poesia e i giochi di parole: la poesia, per via dell’importanza che vi ricoprono le sonorità, la rima, e i ritmi della lingua di partenza; i giochi di parole, per il fatto che sono intimamente legati al genio della lingua di partenza.

 

È importante, anche dal punto di vista etico, che la traduzione venga condotta basandosi sul testo nella sua lingua originale, anche se non è infrequente il caso di “traduzioni di traduzioni”, da lingue più diffuse di quella originale.

 

Condividi