"L'eta dell'angoscia", gli imperatori romani del III secolo d.C.
di Maria Pellegrini
Un’interessante mostra allestita nei Musei Capitolini, dal titolo suggestivo "L'età dell’angoscia" ci conduce in un percorso appassionante attraverso un’epoca travagliata, l’età compresa tra gli anni dell’imperatore Commodo (180-192 d.C.) e quelli di Diocleziano (284-305 d.C.) definita dallo storico Cassio Dione come un passaggio da un "Impero d’oro" (quello di Marco Aurelio) ad uno di "ferro arrugginito", quello dei suoi successori. Ordinata in sette sezioni la mostra documenta - attraverso statue, busti, affreschi, stele, bassorilievi, plastici - l’età presa in esame, il susseguirsi dei diversi imperatori, il nuovo ruolo assunto dall’esercito, la religione, la vita quotidiana, i cambiamenti urbanistici, le ricche dimore private, i costumi funerari. Chiare e concise didascalie riportano nomi, date, e avvenimenti storici di quegli anni.
Nel centro della michelangiolesca piazza del Campidoglio ci accoglie proprio la statua (una copia, l’originale restaurato è all’interno del museo) di Marco Aurelio, il colto imperatore filosofo che amava la pace ma che il destino volle in armi contro i Parti che avevano invaso l’Armenia e la Siria, e contro Quadi e Marcomanni, popolazioni germaniche a nord del Danubio. Morì nel 180 mentre cercava di contenere l’ondata barbarica. Gli successe il figlio Commodo. Si tornava così alla successione dinastica, interrompendo quella regola dell’adozione del "migliore" che aveva prodotto stabilità politica al tempo degli Antonini. Commodo fu l’opposto del padre.
L’uno fu di alta levatura morale, rappresentante degli ideali dell’aristocrazia, l’altro accentuò atteggiamenti graditi al popolo e autocratici. Si compiaceva di combattere nell’arena come un’amazzone trace, tanto che fu soprannominato "Amazonius" facendosi ritrarre come un Ercole con clava e pelle di leone. Non amava la guerra e "le gelide acque del Danubio", come lui stesso diceva. In questo amore per la pace interpretava l’aspirazione dei suoi sudditi. Concluse rapidamente le operazioni militari alle frontiere settentrionali raggiungendo un accordo con i barbari, ritenuto ignominioso, e rientrò a Roma, disinteressandosi degli affari di governo, sperperando le risorse economiche con feste e spettacoli mentre la situazione economica diventava sempre più drammatica.
Nei dodici anni di regno non furono né affrontati né risolti i vari problemi che affliggevano la società: l’inflazione, le sollevazioni in ogni angolo dell’Impero, gli effetti della peste bubbonica che sotto suo padre infestò il bacino del Mediterraneo, e non ancora completamente debellata, il pericolo di nuove invasioni barbariche. L’ostilità del Senato crebbe dopo la scelta monarchica di Commodo che pretendeva di essere adorato come un dio. L’"Ercole di Roma", come amava definirsi, divenne un sanguinario, ma un complotto di palazzo, infine, lo eliminò, nel 192.
La prima sezione della mostra riservata ai protagonisti, con circa novantadue opere, è una ricca presentazione di ritratti, statue e busti degli imperatori regnanti e delle loro mogli, e anche dei cittadini più abbienti dell’epoca.
Le prime sculture che appaiono al visitatore sono due statue di Marco Aurelio, uno consistente in una testina in marmo bianco che lo raffigura ancora giovane ed imberbe, sebbene siano evidenziate alcune caratteristiche proprie della sua fisionomia, la mitezza e la serietà dello sguardo, i capelli ricciuti plasticamente trattati; l’altro con aspetto sereno e pensoso in età matura, in un busto loricato (armato di una leggera corazza), coperto da un pesante mantello militare fermato sulla spalla da una fibbia rotonda.
Accanto a lui c’è un busto marmoreo del figlio Commodo raffigurato come un Ercole. Gli attributi erculei - chiara esaltazione delle qualità e delle gesta del defunto - sono la pelle leonina, con la bocca ferina sulla testa e le zampe annodate sul petto, la clava nella mano destra poggiata sulla spalla, i pomi delle Esperidi (accenno a una delle fatiche di Ercole) nella mano sinistra. La pelle di leone incornicia ed esalta la sua testa.
A Commodo, che aveva trascurato il governo delle province per occuparsi unicamente di Roma, seguì un breve periodo di anarchia militare (192-193). Sono gli eserciti stanziati nelle province fedeli al proprio comandante piuttosto che al potere centrale, a nominare gli imperatori. Dopo l’acclamazione a imperatore del vecchio senatore Pertinace, ucciso dopo tre mesi dai pretoriani, nel 193 quattro furono i pretendenti alla successione: il ricchissimo Didio Giuliano riuscì a comprare il favore dei pretoriani, Pescennino Nigro fu proclamato imperatore dai legionari della Siria, Clodio Albino da quelli di Britannia, Settimio Severo da quelli della Pannonia. A partire da questo momento la storia successiva dell’Impero è caratterizzata da una crescita continua del potere degli eserciti. La seconda sezione della mostra presenta, con oltre venti opere, l’esercito come uno dei grandi protagonisti della nuova epoca, capace di un enorme potere, perfino di imporre o eliminare imperatori a lui sgraditi.
Nella lotta che immediatamente si scatenò dopo la morte di Commodo risultò vincitore Settimio Severo. La sua elezione fu legittimata dal Senato, ed egli si autoproclamò figlio adottivo di Marco Aurelio e per stabilire la continuità con gli imperatori antonini mise al suo primogenito il nome di Marco Aurelio Antonino, che sarà il futuro imperatore, più noto con il nome Caracalla dal mantello gallico che era solito indossare.
Il busto di Settimio Severo riflette la descrizione che ci è stata trasmessa dallo storico Sparziano: di bell’aspetto, di grande corporatura, lunga barba, capelli ricci e un volto che ispira reverenza. Questa raffigurazione conclude la fase del classicismo nella scultura romana. Le sculture successive riflettono già il cambiamento di atmosfera. Bianchi Bandinelli, archeologo e studioso di arte romana di fama internazionale, chiama “il dolore di vivere” quello che traspare dai ritratti scultorei di questo fine secondo secolo dopo Cristo, che incarna la transizione, durata secoli, dall’arte classica, che era imitazione perfetta della natura, all’arte tardo antica caratterizzata dallo sfalsamento delle proporzioni, l’accentuata espressività delle figure, il risalto dei tratti individuali e la rappresentazione patetica dei volti nella ritrattistica.
Nel 211 a Settimio Severo, morto nel corso di una campagna militare in Britannia, successe il figlio Marco Aurelio Antonino, detto Caracalla. Il ritratto che vediamo rappresentato nel busto marmoreo coglie i suoi reali tratti fisiognomici descritti dagli storici: massiccia struttura del cranio, mascella squadrata, collo taurino. Il volto appare corrucciato con sguardo torvo e sospettoso. Colpisce la grande differenza tra questa immagine e il tono composto dei ritratti di Augusto Tuttavia, nonostante la sua durezza feroce e l’autoritarismo, a lui dobbiamo il segno più civile del tempo, un atto giuridicamente rilevante la "Constitutio Antoniniana", emanata nel 212, che estese la cittadinanza romana a tutti i cittadini liberi dell’Impero. Oggi si tende a dare una valutazione restrittiva a quell’atto che secondo alcuni fu dettato anche dallo scopo di rimpinguare le casse dello stato con l’imposizione di gravose tasse ai nuovi sudditi.
Ma torniamo alla mostra. Tra gli imperatori è situata anche la statua di Giulia Domna, madre di Caracalla e seconda moglie di Settimio Severo, sempre accanto al marito durante le spedizioni militari esercitò un forte ascendente sulle sue decisioni. Supportata dal notevole carisma, prese parte attiva all’amministrazione dell’Impero, pur accontentandosi di agire a margine della scena politica nel pieno rispetto del costume romano, da sempre riluttante al conferimento di ruoli e incarichi ufficiali alle donne. Tuttavia nel 217 la sorte cambiò improvvisamente. Appresa la notizia dell’assassinio di Caracalla e dell’acclamazione imperiale di Macrino, Giulia Domna, presumibilmente già malata, si lasciò morire di fame. Nel ritratto del busto esposto nella mostra, la sua bocca è tirata in un sorriso stereotipato con lo sguardo freddo e triste. Confrontando i suoi primi ritratti è evidente il mutamento dei tempi e del cammino stilistico dell’iconografia romana alla fine del II secolo.
Gli eventi che portarono all’uccisione di Caracalla non sono chiari ma è certo che Macrino si autoproclamò imperatore. Riconosciuto anche dal Senato, egli concluse una pace disonorevole con i Parti e si ritirò ad Antiochia. Governò dal 217 al 218. Appoggiato soprattutto dalla borghesia provinciale, intraprese una politica economica che prevedeva una riduzione delle spese e il taglio del soldo alle legioni, che scontente lo deposero, lo uccisero insieme al figlio che aveva nominato suo successore, elessero un giovane di soli quattordici anni, (imparentato per parte di madre con Settimio Severo) che si fece chiamare Eliogabalo dal dio solare siro-fenicio El Gabal di cui era sacerdote e devoto fino al fanatismo. Superò per follia e immoralità i peggiori degli imperatori, governando dal 218 al 222.
Di Eliogabalo giovane possiamo osservare due busti marmorei che lo ritraggono con gli occhi fissi e sgranati, un’aria però mite che non ha traccia della sua megalomania che lo porterà a pretendere la prostrazione ai suoi piedi dei suoi sudditi in segno di adorazione. Tali stravaganze, del tutto incompatibili con le tradizioni romane, spinsero i pretoriani, interpreti del generale malcontento, a trucidarlo, esporlo al ludibrio per la città e a gettarlo nel Tevere.
Gli successe un suo giovane cugino, Severo Alessandro, posto per la sua minore età sotto la reggenza della madre Soemia e della nonna Giulia Mesa di origine siriaca. Di lui abbiamo due busti, uno realizzato in occasione dell’incoronazione, dove appare giovane dall’aspetto serio e dal capo quasi rasato, e uno colossale che lo ritrae da adulto, ma con un’espressine mite. Non aveva attitudine al comando, fu il primo imperatore che riconobbe l’enorme significato della predicazione cristiana. Morì nel 235 a Magonza mentre combatteva contro i Germani, all’età dai 28 anni, ucciso dai suoi soldati che gli rimproveravano di aver comprato la pace con i Germani con l’oro.
Ai dieci anni di governo dell’imperatore Alessandro Severo seguì un cinquantennio (235-284) di vera e propria anarchia militare. Gli eserciti reclutati nelle regioni sottosviluppate dell’Impero si ribellarono a ogni disciplina, nominarono e abbatterono ventuno imperatori, che contribuirono alla disgregazione dell’Impero. Degli imperatori di questo periodo di anarchia, le sculture più significative sono: il busto di Massimino il Trace (235-238) il cui carattere rozzo sembra essere sottolineato nel ritratto dove manca qualsiasi tentativo di sublimazione, di addolcimento dei tratti, il viso solcato da profonde rughe è tozzo, la mascella quadrata e il mento prominente. Il busto di Decio (249-251) dall’espressione di ansiosa incertezza che ne caratterizza il volto.
La straordinaria statua bronzea di Treboniano Gallo (251-253) ben conservata, in grandezza maggiore del naturale, rappresenta l’imperatore nudo e nell’atteggiamento proprio degli oratori. La testa è più piccola rispetto alla corporatura, rughe profonde e simmetriche solcano la fronte, lo sguardo penetrante. Il busto colossale di Probo (276-282) dal volto estremamente allungato segnato da rughe profonde e regolari, ha le guance scavate, le mascelle robuste, l’espressione degli occhi fissa.
Verso la fine del III secolo Valerio Diocleziano (284-305) proclamato imperatore nel 284, divise il potere con il più valoroso dei suoi generali, Massimino che associò al governo della parte occidentale dell’Impero. Impostò il potere secondo i princìpi della tetrarchia, ripartì cioè il governo tra due Augusti (lui e Massimiano) e due Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che coprivano il ruolo di coadiuvanti degli Augusti e loro successori designati. Insieme alla tetrarchia furono create quattro prefetture: la Gallia, con capitale Treviri, l’Italia, con Milano, la Pannonia con Sirmio e la Bitinia con Nicomedia. Milano e Nicomedia erano le sedi dei due Augusti. Dopo circa dieci secoli di primato in Italia e nel mondo romanizzato, la città di Roma perse la sua funzione di capitale dell’Impero. Non è in mostra un busto o una statua di Diocleziano, ma due calchi in gesso dei due suoi Cesari: Costanzo Cloro e Galerio, un gruppo dei Tetrarchi, e stele di figure maschili e di soldati.
Se guardiamo la scultura del III secolo dell’Impero romano restiamo colpiti dal fatto che i volti assumono un espressione di dolore, non di dolore fisico, ma morale, di angoscia che si esprime iconograficamente nei gesti, nella fronte corrugata, nell’inclinazione della testa, nell’espressione patetica di certi occhi grandi. Sono mezzi stilistici che servono all’espressione dell’angoscia che l’arte di questo tempo ricerca. Le certezze di un tempo svanivano generando insicurezza, paura, ansia. I barbari facevano sentire una pressione sempre più forte ai confini, crescevano i disordini interni, aumentavano vertiginosamente le tasse e l’inflazione. L’incertezza non è solo economica, sociale, ma anche religiosa. C’è un allontanamento dagli dei della tradizione e il rifugio nei culti orientali, e poi la diffusione del messaggio cristiano.
Nel III secolo, nell’arte, si accentua un disfacimento della corretta struttura anatomica del volto mediante la quale lo scultore raggiunge un’accentuazione dell’espressione voluta, che pone fine all’imperturbabile compostezza classica. "La nuova forma dell’arte figurativa, labile, disfatta, fortemente espressiva di stati d’animo depressivi, angosciosi, di tormento interiore, ha la sua esatta spiegazione nella condizione umana, sorge dall’interno della società romana del II-III secolo quale fenomeno storico inevitabile. Poche altre volte nella storia dell’arte il rapporto tra società e linguaggio formale è così stretto e risulta così evidente" (da La fine dell’arte antica vol. 2 di R. Bianchi Bandinelli).

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