di Maria Pellegrini

 

Il 27 gennaio 1945 quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso dell’offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz) videro esterrefatti tutto l’orrore del campo di concentramento e liberarono i superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo la barbarie del genocidio nazista. Il “Giorno della Memoria”, istituito nel 2005, è celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell’Olocausto.

         Raccontare o conoscere l’Olocausto è, quindi, immergersi in un universo di orrori che gela il sangue e ci fa vergognare di essere uomini, di essere cioè capaci di odiare gli altri, i diversi da noi, dal nostro gruppo di appartenenza, con una tale intensità e violenza da considerarli come “cose” da distruggere senza alcun sentimento di colpa, anzi sicuri di compiere un’opera giusta. Poiché, come correttamente è stato fatto osservare, il futuro senza memoria è un salto nel buio, il “Giorno della memoria” ci offre l’occasione di rileggere la nostra natura di uomini capaci di infliggere la morte in vari modi, uno più brutale dell’altro, spesso oltre l’immaginazione.

         Eppure il passato ci offre molte testimonianze della barbarie di cui è stato capace l’uomo in ogni epoca. La Storia gronda di sangue e fango. Ma ciò che più dobbiamo temere è l’opacità morale, la coltre di silenzio che il tempo distende sulle piccole o grandi tragedie e sulle infinite turpitudini che hanno costellato il cammino della storia dei popoli che sempre più si è manifestato, e continua a manifestarsi, come un insensato avvicendarsi di spietati conflitti - tra forti e deboli, tra popoli predatori e popoli aggrediti - nei quali le vittime sono quasi sempre i deboli. Si dirà che non possiamo ridurre la Storia a un Museo degli orrori, ma come descrivere la punizione inflitta dai legionari romani a città che si erano ribellate all’egemonia italica dell’Urbe? Nel lontano VI secolo a. C. leggiamo, nell’opera dello storico Tito Livio, che Pomezia, colonia latina che si era ribellata a Roma, dopo lungo assedio  si arrese, «ma con la resa subirono una sorte non meno atroce di quella che avrebbero subito se la città fosse stata conquistata; i maggiorenti furono decapitati, gli altri venduti come schiavi, la città distrutta». Nel 495 a.C. il console Servilio sconfisse i Volsci che avevano violato gli accordi di pace con i Romani, ai quali in precedenza  avevano consegnato come garanzia alcuni ostaggi. «Dopo la loro sconfitta, l’altro console, Appio Claudio, fece condurre gli ostaggi nel Foro, trecento uomini e affinché altri si guardassero da violare accordi ordinò che fossero frustati davanti agli occhi di tutti e che si tagliasse loro la testa». Stessa sorte ebbero a Sora - strappata dai Romani ai Volsci- duecentoventicinque abitanti che avevano istigato la ribellione: «condotti a Roma, furono portati nel Foro, frustati e poi decapitati con sommo piacere della folla alla quale importava soprattutto che fosse ovunque sicura la gente che si inviava qua e là nelle colonie».

         Non si può dimenticare quanto si verificò a conclusione della terza guerra punica, nella primavera del 146 a. C. Dopo l’attacco finale, con sanguinosi combattimenti nelle strade e casa per casa, i Romani incendiarono e rasero al suolo Cartagine, i vinti furono venduti schiavi, l’area sulla quale era sorta la città fu dichiarata, con solenne imprecazione «per sempre inabitabile». Appiano documenta: «Scipione fece appiccare il fuoco che divorava ogni cosa […] mescolati alle macerie cadevano a terra mucchi di cadaveri, e altri ancora vivi, soprattutto vecchi, donne e bambini e chi si era nascosto negli angoli più remoti delle abitazioni, feriti, e lambiti dalle fiamme lanciando suoni strazianti […] Gli addetti a rimuovere le macerie con asce e mazze spianavano la strada ai soldati e spingevano sia i cadaveri che quelli che erano ancora vivi nelle buche, come se stessero trascinando e rastrellando legna e pietre». E come giudicare il taglio delle mani a duecento giovinetti catturati dal colto e “illuminato” Scipione Emiliano, sottoposti a questa orrenda mutilazione per “punirli” dell’aiuto da essi prestato alla vicina città di Numanzia, che Scipione assediava e riuscì poi a distruggere (133 a. C.)?

         Attraversando i secoli, troveremo altre infamie. Sei anni (111-195 a.C.) durò la guerra contro Giugurta, che regnava insieme ai cugini sul trono della Numida, alleata di Roma. Giugurta aveva tentato di usurpare il trono uccidendo prima  uno dei cugini e poi muovendo guerra al superstite che chiese aiuto ai Romani. Giugurta alla fine, sebbene non ancora sconfitto, fu consegnato a tradimento ai Romani. Il console Mario rientrò dall’Africa vittorioso, portò in trionfo 3700 libre di oro e 5.775 di argento non coniato, e 287.000 dracme in monete. Entrò in città alla testa di un corteo trionfale mostrando ai Romani uno spettacolo che non avrebbero mai creduto di vedere: Giugurta in catene, vivo. Poi fu buttato nel carcere Mamertino, ove le guardie gli stracciarono con violenza la tunica leggera che portava; ed alcune ce ne furono tanto avide, che volendo portargli via l’orecchino d’oro gli strapparono con forza, insieme all’orecchino, il lobo dell’orecchio e lo lasciarono là nudo. Dopo essersi dibattuto per sei giorni contro la fame, ed essere rimasto fino all’ultimo giorno aggrappato al desiderio di vivere, fu strangolato.

         Il Carcer Mamertinum era il più antico carcere di Roma, detto anche Carcer Tullianum che indicava la parte superiore successiva e sovrapposta alla prima, scavato alle pendici meridionali del Campidoglio. Tito Livio nel primo libro della sua “Ab Urbe condita” così annota: «Il luogo oltreché prigione, funzionava anche come sede preferita per l’esecuzione di sentenze capitali dei prigionieri politici mediante strangolamento». Infatti nel carcere Mamertino non venivano rinchiuse le persone giudicate colpevoli di un reato comune, ma quelle in attesa di giudizio, per evitare che fuggissero prima del processo, che spesso non avveniva.

         Dal 73 al 71 a. C. l’Italia intera fu minacciata dalla rivolta di schiavi, capeggiati dal leggendario gladiatore Spartaco, che si batteva per riportare migliaia di insorti nelle loro diverse patrie. Infine battuti e sterminati in successive battaglie da Crasso e Pompeo, i restanti, ancora molto numerosi, furono crocefissi. La via Appia fu costellata da seimila croci sulle quali agonizzarono a lungo i superstiti catturati, spaventoso e lugubre spettacolo per chiunque camminasse o viaggiasse lungo quella via.

         Nel 63 a.C. una congiura sconvolse la Roma repubblicana. Catilina, truffato nelle elezioni al consolato, organizzò una congiura con l’obiettivo di un radicale mutamento o addirittura rovesciamento dell’assetto sociale della repubblica fondata sul potere pressoché incontrastato dell’aristocrazia senatoria. Il senato lo dichiarò “nemico pubblico” ed egli costituì un piccolo esercito di rivoltosi stanziato sulle colline intorno a Fiesole: furono sterminati tutti dagli eserciti legionari e Catilina stesso cadde combattendo da valoroso fra cumuli di nemici uccisi, ma i catilinari rimasti in città furono scoperti e strangolati nel carcere Mamertino, che Sallustio descrisse così: «Nel carcere vi è un luogo chiamato Tulliano, un poco a sinistra, sprofondato a circa 12 piedi sotto terra. Esso è chiuso tutt’intorno da robuste pareti, e al di sopra da un soffitto, costituito da una volta in pietra. Il suo aspetto è ripugnante e spaventoso per lo stato di abbandono, l’oscurità, il puzzo».

         Non si può tacere la fine miseranda di Vercingetorige, re degli Arverni. Nel 52 a.C sotto la sua guida c’era stata la sollevazione dei Galli. Cesare, dopo averlo vinto in battaglia, lo costrinse a rinchiudersi nella fortezza di Alesia. Dopo giorni di durissima lotta la città si arrese e Vercingetorige si consegnò a Cesare pregandolo d’essere generoso verso il suo popolo. Portato a Roma fu tenuto prigioniero nel carcere Tulliano per ben sei anni in attesa del ritorno a Roma di Cesare che celebrando il proprio trionfo 46 a.C. lo fece sfilare in catene lungo la Via Sacra e poi impietosamente decapitare.

         Se dal tempo della repubblica, di cui abbiamo ricordato solo alcuni episodi di crudeltà gratuita, passiamo a quello dell’Impero, gli atti di efferatezza sono numerosissimi e spesso agli stessi imperatori toccò di sperimentare a quale livello può arrivare l’odio. Terribile fu la sorte dei tre imperatori seguiti alla morte di Nerone, narrata da Svetonio ( ma anche da Tacito e Cassio Dione): Galba fu trucidato dopo soltanto sette mesi dalla nomina. «Fu sgozzato senza pietà presso il lago Curzio. Atroce fu la sorte del suo cadavere: un soldato gli mozzò il capo, e poiché per la sua completa calvizie non poteva reggerlo per i capelli, gli ficcò il pollice nella bocca e lo trasportò così per mostrarlo al vincitore Otone, il quale consegnò quell'orrendo dono ai vivandieri e agli stallieri, che infilzarono la testa su una lancia e con ogni sorta di beffe e di insulti la portarono in giro per gli accampamenti». Ma il vincitore Otone fu subito minacciato da Vitellio, che le legioni dislocate in Germania avevano eletto imperatore e marciavano verso Roma. Ormai l’Impero era nelle mani delle legioni invece che del Senato. Dopo soltanto novantacinque giorni, dopo tre scontri favorevoli sotto le Alpi, Otone fu sconfitto e preferì darsi la morte piuttosto che cadere nelle sue mani del suo successore. Vitellio, tuttavia, dopo otto mesi e cinque giorni di potere spregevole, dedito alla ferocia gratuita, poiché le legioni orientali si erano schierate con il loro comandante Vespasiano, fu raggiunto dai soldati. «Mentre si raccomandava alla pietà dei carnefici, fu trascinato seminudo nel Foro con le mani legate dietro il dorso e un cappio al collo. Gli fu fatta percorrere la Via Sacra con la testa tirata indietro per i capelli e la punta d’una spada sotto la gola mentre ai lati il popolo lo ingiuriava e gli gettava addosso fango e sterco. Condotto nelle carceri fu torturato barbaramente con minutissimi colpi di pugnale che quasi lo scarnificarono, e infine ucciso».

La civiltà romana ci ha lasciato un repertorio di voci poetiche e storiche di alto livello, ma le efferate crudeltà, le torture, le sopraffazioni ampiamente documentate non depongono a favore dell’idea di civiltà che comunemente si accumuna alla storia di Roma.

 

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