Alfonso Gianni

 

Dopo quasi venti anni di dibat­tito e vari ten­ta­tivi di pre­ce­denti mag­gio­ranze, il governo Renzi ce l’ha fatta ad affon­dare il colpo sul sistema delle Ban­che popolari.

Per quanto il prov­ve­di­mento riguardi solo le dieci ban­che mag­giori, esso pre­vede l’abolizione del voto capi­ta­rio, ovvero della norma che con­sente che ogni socio abbia a dispo­si­zione un solo voto, indi­pen­den­te­mente dal numero di azioni pos­se­dute. Inol­tre, a quanto si sa, il con­si­glio dei Mini­stri di ieri ha anche dispo­sto la can­cel­la­zione del limite dell’1% per la par­te­ci­pa­zione dei sin­goli soci non­ché l’abrogazione dell’attuale numero minimo (200) degli stessi.

La norma che già stava in un dise­gno di legge sulla con­cor­renza è stata infi­lata in fretta e furia in un decreto legge, il cosid­detto Invest­ment com­pact. Che dif­fe­renza con i vec­chi tempi quando palazzo Chigi era l’unica Mer­chant Bank in cui non si par­lava inglese!

Non si com­pren­dono le ragioni di neces­sità e urgenza di una simile scelta legi­sla­tiva, avendo peral­tro le ban­che 18 mesi di tempo per ade­guarsi. Ma ora­mai l’articolo 77 della nostra Costi­tu­zione è diven­tato un colabrodo.

Il noc­ciolo della con­tro­ri­forma sta nell’omologazione di que­ste ban­che al resto del sistema. L’abolizione del voto capi­ta­rio le tra­sforma in società per azioni, il cui fine non sarà tanto quello di favo­rire il cre­dito quanto quello di fare felici gli azio­ni­sti. I mer­cati finan­ziari inter­na­zio­nali e la Borsa di Milano hanno gra­dito e subito c’è stato un vivace movi­mento di acqui­sti di titoli delle Popo­lari, in attesa di acqui­si­zioni da parte dei grandi gruppi ban­cari. Fa quindi un ulte­riore passo in avanti la con­cen­tra­zione del sistema ban­ca­rio ita­liano. Renzi ha moti­vato que­sta scelta dicendo che ci sono troppe ban­che, men­tre lan­gue il cre­dito alle pic­cole e medie imprese. Ma il cre­dit crunch è dovuto non al numero degli isti­tuti ban­cari, piut­to­sto alle nuove norme sulla capi­ta­liz­za­zione delle mede­sime, non­ché al clima di sfi­du­cia che attra­versa un’economia in reces­sione come la nostra.

In sovrap­più ven­gono col­pite pro­prio le ban­che che per la loro natura e col­lo­ca­zione erano, almeno in potenza, quelle più sen­si­bili alle esi­genze pro­dut­tive dei ter­ri­tori e ai biso­gni delle fami­glie. La Ren­zi­no­mics pro­cede spe­dita e finge di non capire che la poli­tica del too big to fail si sia rive­lata in tutto il mondo disastrosa.

Non che il sistema del ban­che popo­lari ita­liane fosse per­fetto e che non si fos­sero veri­fi­cati anche in que­sto set­tore distor­sioni, mal­ver­sa­zioni o scan­dali. Ma cer­ta­mente la mossa gover­na­tiva va in senso dia­me­tral­mente oppo­sto a quello neces­sa­rio per rilan­ciare il cre­dito fina­liz­zato a uno svi­luppo inno­va­tivo dei ter­ri­tori. Que­sto sistema avrebbe neces­si­tato invece di una mag­giore tra­spa­renza, di un più effi­cace con­trollo non tanto sulla con­ta­bi­lità, quanto sulla mis­sion che que­ste ban­che dovreb­bero per­se­guire: quello di favo­rire una ripresa eco­no­mica di nuova qua­lità, che invece si allon­tana sem­pre più.

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