Elio Clero Bertoldi

 

PERUGIA - I reperti etruschi venuti alla luce l’8 aprile 1812 in un campo, coltivato a grano e ulivi da tempo immemorabile, in località San Domenico di Monticelli, terreno dei frati Olivetani di Monte Morcino, hanno trovato una degna collocazione in una sala del Museo Nazionale Archeologico, preparata in un primo tempo per ospitare il Germanico di Amelia. Il soprintendente Antonio Pagano e l’assessore Teresa Severini hanno introdotto la cerimonia, prima della relazione di Mafalda Cipollone, archeologa, che ha fornito tutta una serie di elementi chiarificatori, scaturiti da una certosina ricerca all’Archivio di Stato e in altri archivi.

Cipollone, curatrice scientifica della mostra, ha affermato che dobbiamo dire grazie, una volta di più, a Giovanni Battista Vermiglioli, perugino doc e primo docente di archeologia in Italia.

La scoperta del 1812 venne fatta dai contadini durante l’occupazione bonapartista. Le autorità francesi, come il prefetto Roederer e il viceprefetto Spada, ebbero subito dalle loro spie notizia del ritrovamento (già durante la notte dell’8 aprile) e spedirono sul posto funzionari e gendarmi, al cui arrivo i contadini  scavatori scapparono in ogni direzione. Bonaparte e i suoi generali erano molto “ghiotti” di reperti e di opere d’arte. E anche in questo caso razziarono quanto potettero. Se molti pezzi sono rimasti a Perugia lo si deve a Vermiglioli, che formalmente chiamato a stimare il tesoretto recuperato, ne minimizzò il valore (“... non ci presentano cose di molto interesse...), salvando il salvabile. Nonostante questo né Vermiglioli, né i francesi furono in grado di impedire che buona parte del materiale trovato venisse disperso (almeno un terzo del totale) anche attraverso antiquari senza scrupoli. Cipollone ha ricordato che a fronte dei 180 pezzi rimasti a Perugia, 68 finirono a Monaco di Baviera. 5 a Londra, 3 a Berlino, 3 a Parigi, 2 a Copenaghen, 2 a Mainz, senza contare le “rapine” dei generali bonapartista.

Nella fossa furono rinvenuti parti di almeno tre carri (calesse, biga, carro trionfale), bronzi, alari statuette, due elmi e altri frammenti che lasciano pensare ad un principe guerriero o a una ricca, aristrocratica famiglia, che avesse nascosto i propri beni per impedirne la razzia di un qualche nemico. I pezzi rimasti sono soprattutto, in bronzo e in ferro, ma la documentazione emersa degli archivi parla anche di una fiala d’argento, di una lamina d’oro, statuette di avorio lavorato, scomparse e in parte distrutte dopo il ritrovamento.

La qualità dei manufatti é “elevatissima” e di stile orientaleggiante (tra il 560 e il 500 a.C.). Pagano ha ipotizzato che i lavori siano opera di artigiani della Ionia già in collegamento commerciale con il mondo Etrusco o meglio - secondo il soprintendente - emigrati, per sfuggire alla feroce pressione degli eserciti pressioni, in Italia, dove aprirono laboratori di successo e di grido. Di cui ci restano i suggestivi, interessantissimi reperti di Perugia.

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