di  Maria Pellegrini

 

Musa, quell'uom di multiforme ingegno/ dimmi, che molto errò poich'ebbe a terra/ gittate di Ilion le sacre torri;/ che città vide molte, e delle genti/ l'indol conobbe; che sovresso il mare/ molti dentro del cor sofferse affanni,/ mentre a guardare la cara vita intende,/ e i suoi compagni a ricondur: ma indarno….

            Così il proemio dell’Odissea nella traduzione di Ippolito Pindemonte (1961) che migliaia di studenti nati nella seconda metà del Novecento hanno letto e imparato a memoria. Nuove traduzioni dei poemi omerici sono seguite nel corso degli anni, con linguaggio più moderno e maggiore sensibilità poetica, ma ho voluto citare questi versi per un debito di riconoscenza verso la mia insegnante della scuola media che mi rese la lettura dei poemi omerici indimenticabile.

            Sebbene siano passati tre millenni da quando Omero ne cantò il ritorno avventuroso a Itaca, sua patria, Odisseo noto ai più come Ulisse, dal nome latinizzato Ulixes, ancora affascina. Ne sono prova le centinaia di saggi, film e libri che si ispirano alle sue vicende e da ultimo anche la nuova fiction in programma sulla TV in questi giorni, che mi auguro renda un buon servizio alla conoscenza di questo antico mito, e spinga gli spettatori a una lettura o rilettura del poema omerico, l’Odissea, in una delle tante traduzioni in commercio.

            Odisseo è sicuramente il più umano dei personaggi dei poemi omerici, il più variegato e contraddittorio, sempre in bilico tra pulsioni contrastanti. Gli eroi dell’Iliade, l’altro poema omerico, pure con i loro drammi e debolezze, sono uomini dal carattere monolitico, diversi dal protagonista dell’Odissea che mostra multiformi aspetti del carattere: avventuriero, astuto, senza scrupoli, coraggioso, prudente, calcolatore, legato agli affetti familiari, sensibile, ma soprattutto curioso: vuole sapere, anche a rischio della vita. Ha sete di conoscenza. Anche il mondo e la concezione della vita che traspare nell’Odissea sono diversi da quelli degli eroi che combattono a Troia nell’Iliade, e di ciò si ha subito una testimonianza nelle parole pronunciate da Zeus durante un concilio di dei sull’Olimpo, nel primo libro subito dopo l’invocazione alla Musa. Si discute sulla sorte riservata agli eroi reduci della guerra di Troia; molti sono tornati a casa, alcuni sono morti inghiottiti dal mare, Odisseo è trattenuto da sette anni dalla ninfa Calipso che vuole diventi suo sposo. Zeus - dopo aver ricordato la triste fine di Agamennone, ucciso a tradimento da Egisto, amante di sua moglie, ma a sua volta ucciso per mano di Oreste, figlio dell’eroe - si lamenta contro la tendenza degli uomini di attribuire agli dei tutte le loro sventure, mentre essi stessi se le procurano con la loro tracotanza e stoltezza. Queste parole, insolite e contrarie allo spirito dell’epos, quasi un’affermazione del libero arbitrio con grande anticipo sui tempi, sono già un esempio della modernità dell’opera, del progresso nella visione del ruolo dell’uomo di fronte alle responsabilità delle sue azioni.

            Più che altri antichi eroi, Odisseo incarna l’ideale di uomo libero, artefice del proprio destino anche se talvolta è soggetto al volere degli dei. La propria famiglia, la terra, la casa, sono sempre nei suoi pensieri. La prima volta che Ulisse fa il suo ingresso sulla scena, nel libro V, lo troviamo nell’isola della ninfa Calipso, seduto davanti al mare, col cuore gonfio di nostalgia, e mentre guarda davanti a sé quella distesa di acqua, piange. La ninfa che è immortale gli promette amore e immortalità, ma Odisseo all’immortalità inoperosa preferisce la vita, nonostante l’ansia e il rischio che la vita di un mortale comporta, e l’amore della sua sposa: “Penelope è mortale e tu sei immortale, e non ti tocca vecchiezza, ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il giorno del ritorno”. Sceglie la vita, e un futuro imprevedibile, perché una vita da immortale non avrebbe più nulla di umano. È la nostalgia che mette in moto il suo desiderio di ritorno dove sono le sue radici, dove può recuperare la sua vita individuale e sociale. E la nostalgia è un sentimento che agli dei non appartiene. Non sanno che cos’è perché non sanno cos’è il tempo, avendo davanti l’eternità.

            Con l’Odissea nasce la religione della casa, dominante nel romanzo europeo dell’Ottocento. “Niente è più dolce della patria e della famiglia per chi si trova in una terra straniera, lontano dai suoi familiari anche se è in una casa ricca e bella”, dice Odisseo ad Alcinoo, re dei Feaci che lo ha accolto benevolmente nella sua reggia dopo il naufragio e la perdita di tutti i suoi compagni e delle navi. Qui trova finalmente un ambiente festoso con lauti banchetti e canti. In onore dell’ospite, di cui non si conosce ancora l’identità, un aedo canta le imprese troiane, il naufrago ignoto si commuove e piange coprendosi il volto con il mantello. Rivela allora con orgoglio: “Sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini per la mia astuzia, e la mia fama giunge fino al cielo”. Il racconto delle sue disavventure di fronte alla corte del re diventa narrazione all’interno della narrazione, metanarrazione. Il naufrago per quattro canti del poema è il cantore delle proprie vicende, l’io narrante che ci conduce sui mari in tempesta dove udiamo le grida di marinai scomparsi tra flutti che schiumano si alzano al cielo ruggiscono infrangendosi contro gli scogli, assistiamo all’orrore di ciò che avviene nell’antro di Polifemo, approdiamo in luoghi sconosciuti e strani, in promontori scoscesi, in boschi fittissimi o in pianure verdeggianti, in paesi popolati da cornacchie, capre, corvi, arpie, abitanti ostili, ciclopi antropofagi, sirene incantatrici, mangiatori di loto, e persino lo seguiremo mentre scende nel regno di Ade, esplora il regno della morte  dove farà offerte ai defunti e incontrerà eroi greci e la madre. Cerca inutilmente di abbracciarla, ma tre volte gli vola via dalle mani “come un’ombra, come un sogno”.  Lo vedremo tornare alla sua Itaca, combattere contro chi pretende di usurpargli il trono e la sposa, uscire vincente dopo un massacro cui Atena mette fine gridando: “Itacesi, mettete fine a questa battaglia tremenda, e decidete la contesa senza versare sangue” e rivolta a Odisseo: “Fermati, metti fine a questa lotta crudele, perché Zeus … non si adiri con te”.  Il viaggio è concluso, è il momento di godere della pace e di ristabilire patti leali, concordia, dopo tante pene e lutti.

            Durante l’intero viaggio, l’animo di Odisseo ha oscillato tra nostalgia, necessità del ritorno, ansia di nuove conoscenze e curiosità dell’ignoto. Questo contrasto tra poesia dell’avventura e poesia del ritorno è dominante in tutto il poema. La mente multiforme di Odisseo ha affrontato coraggiosamente, da guerriero, le disavventure ricorrendo alla forza e all’astuzia, ma anche al fascino della parola. L’Odissea il romanzo del viaggio e dell’avventura per terra e per mare risponde allo stesso bisogno che negli antichi tempi creò il poema epico: il bisogno di narrare, ma è anche archetipo del romanzo d’iniziazione: Odisseo, per riappropriarsi del suo regno ad Itaca, una terra aspra sassosa ma piena di vita, e del suo ruolo di re e di marito, deve superare imprese difficili e compiere un percorso irto di ostacoli, il suo nóstos, “ritorno”, è lungo e tortuoso come il cammino che ogni uomo deve compiere per poter essere quello cui aspira di essere.

                                                                                                                        

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